Ci sono viaggi che vengono programmati con mesi e mesi di anticipo fin nel minimo dettaglio. Altri, invece, nascono quasi per caso e diventano realtà nel giro di poche settimane.
In realtà questa profonda riflessione, corroborata da un caffè in un assonnato pomeriggio di domenica nell’aprile 2016, non ha alcuno scopo particolare. È solo che mi serviva una qualche forma di incipit per questo report.
Comunque, ormai mi sono impantanato e devo continuare con questa sorta di flashback: è il 2015, è cominciato l’inverno e l’idea di andare in Nuova Zelanda ronza nelle nostre teste già da almeno un anno. Da altrettanto tempo fantastichiamo sugli itinerari migliori per passare a trovare amici in giro per il mondo, per esempio a Hong Kong, e al contempo soddisfare le mie esigenze aeronautiche, tipo evitare di spezzare il viaggio a Dubai o giù di lì.
Tuttavia, vittime anche noi del price dumping, alla fine rinunciamo ai nostri intenti e decidiamo di affidarci a Etihad. D’altronde è già dicembre, i prezzi salgono e noi vogliamo partire a fine febbraio. Inutile attendere oltre.
L’itinerario finale sarà MXP-AUH-MEL-AKL con AZ, EY e VA. Al ritorno voleremo con le stesse compagnie in ordine inverso sulla CHC-SYD-AUH-MXP. Partire da Milano ci permetterà di tirare su la terza compagna di viaggio e, soprattutto, di volare per la prima volta con AZ su una tratta intercontinentale. Il fatto che il volo costasse meno rispetto all’opzione Air Berlin-Etihad dalla nostra base di Berlino è del tutto casuale, ovviamente.
Bene, è ora di partire.
SXF-MXP
U24671
07:10 LT – 08:55 LT (on time)
Airbus A319-111 | cn: 4425 | First flight: 17/08/2010
G-EZFZ
Seat 5F
Partire il sabato mattina all’alba vuol dire dover fare la valigia la sera prima, se non di notte. I primi due mesi dell’anno dal punto di vista lavorativo sono stati di fuoco: stravolto, arrivo a casa intorno alle 19:30 di venerdì sera. This trip couldn’t have come soon enough.
L’impatto di primo mattino con quel cesso di Schönefeld è sempre duro, ma almeno non c’è fila al baggage drop-off. Rimane solo da superare lo scoglio dei miasmi del Burger King prima dei gate easyJet.
Fa freddo, stamattina. Il de-icing ci fa decollare con circa un quarto d’ora di ritardo, ma tanto non c’è fretta, il volo MXP-AUH parte alle 21:15.
Turning onto runway 25R. Il terminal del BER è quasi come se ti facesse una pernacchia e ti dicesse “sono qui, ma tu continuerai a volare da quella catapecchia qui di fronte!” (nda: al tempo della stesura del trip report, nel 2016, circolava già la notizia di un possibile slittamento al 2019; l’apertura del nuovo BER è ora prevista per il 31 ottobre 2020).
Le Alpi illuminate dal sole mattutino sono sempre un bello spettacolo.
Tutto fila liscio, i bagagli rispuntano subito sul nastro e in pochi minuti siamo già sulla navetta per il T1. Paghiamo quello che dobbiamo per il deposito bagagli e prendiamo il primo treno utile per Cadorna. A Milano splende il sole: non fosse per il freddo, sembrerebbe quasi di essere già in vacanza. Quasi, eh.
Con il solito, ragguardevole anticipo siamo di ritorno nell’hub della brughiera e aspettiamo l’apertura del check-in. La signora che si occupa di noi non trasmette esattamente una sensazione di calma: sarà l’imminente cambio turno (come ci sembra di aver capito), o forse la complessità dell’itinerario (?). Il volo è pieno e non avendo potuto scegliere i posti a sedere in fase di prenotazione dobbiamo accontentarci di tre posti uno dietro all’altro (34J, 35J, 36J).
Calma piatta.
Come per miracolo otteniamo le carte d’imbarco per le prime due tratte. Mentre i bagagli andranno dritti fino ad AKL, per il volo Melbourne-Auckland, ci dice, basterà andare direttamente al gate a MEL e ritirare le carte d’imbarco.
In tutto ciò io sto cercando di capire con quale 777 AZ voleremo. Ho vaghi ricordi di giri macchina incrociati con la NRT, quindi cerco la AZ787 su Flightradar e constato con piacere che si tratta di EI-DBK.
La nuova livrea effettivamente fa un figurone.
Le mie previsioni, tuttavia, non risultano corrette. DBK opererà un charter per (mi sembra) Pointe-à-Pitre, mentre EI-DBM se non ricordo male andrà a FCO con un ferry flight. Noi ci becchiamo EI-ISB, arrivato anche lui in ferry flight da FCO. Boh!
Non perdiamo altro tempo e andiamo verso i controlli di sicurezza. C’è un buon numero di passeggeri alle prime armi, ma tutto sommato si procede velocemente e il personale è di buon umore.
Passati i controlli, mentre sto cercando di recuperare un po’ di dignità rimettendomi la cintura, un supervisore attacca bottone con noi e ci mostra un fascicolo di fogli bianchi. “È il discorso di Renzi alla Camera”, dice, e sparisce.
MXP-AUH
AZ856
21:15 LT – 06:15 LT (ATA: 09:35 LT)
Boeing 777-243ER | LN: 426 | First flight: 18/12/2002
EI-ISB “Porto Rotondo”
Seat 35J
Un veloce aperitivo allo Spazio Bollicine, con un assaggio di focaccia, mozzarelline e fiocco di crudo, è quello che ci vuole prima di arrivare nella bolgia del gate B59. La zona intorno al gate è stretta e scomoda. A ciò si aggiungono una procedura d’imbarco oltremodo caotica e la scarsa comprensione del concetto dell’imbarco a zone. Signora, hanno appena detto “file dalla 31 alla 44”, Lei ha il posto 21C. Sì, anche la fila 21 va ad Abu Dhabi, quindi stia tranquilla e lasci passare gli altri, perdio! Un giorno o l’altro lo dirò anche a voce alta, invece di pensarlo solo nella mia mente.
L’accoglienza a bordo, in compenso, è ottima. Ho come l’impressione che si tratti di un equipaggio ben affiatato, e non mi sbaglierò: in particolare mi colpirà molto l’impegno della purser, tale Cinzia G., nonché di molti altri aa/vv.
A questo fa fronte una cabina che ha visto tempi migliori. Belli i cuscini con il nuovo disegno AZ, mentre i sedili, in parte macchiati, gridano alla rinconfigurazione. Il mio tavolino è rotto e si appoggia direttamente sulle mie gambe: faccio presente la cosa a un membro dell’equipaggio, che si scusa e mi assicura che la cosa verrà segnalata. Purtroppo non ci sono altri posti liberi, quindi me lo terrò così.
Il pitch e la comodità dello schienale sono mediocri, ma comunque migliori rispetto all’A330-200 Air Berlin. Amenity kit non pervenuto.
Tutti i passeggeri intorno a noi fanno parte di un gruppo vacanze di Legnano che partirà in crociera da Abu Dhabi. È il loro primo volo intercontinentale. Temo che per me saranno sei ore molto lunghe, se già ora cominciano a chiedermi aiuto con l’IFE, antiquato e lento quanto basta per rendere qualunque tentativo di spiegazione del sistema un pelino frustrante.
Non ricordo a che ora siamo decollati, ma mi sembra fossimo in orario. Ricordo solo che non sapevo se ridere o piangere al sentire i vicini di sedile chiedersi se fossimo “già in aria”… subito dopo il pushback. Ah, ma quant’è bello il rombo dei GE90?
Il servizio comincia un’oretta dopo il decollo: seguendo il consiglio di un amico in EY abbiamo ordinato dei pasti speciali in modo da massimizzare le ore dedicate al sonno. Proviamo le opzioni seafood, hindu e gluten-free, tutto buono tranne quest’ultimo, molto insipido (anche se condito con dell’olio d’oliva, molto apprezzabile). Il pesce era eccezionale.
Durante il servizio l’equipaggio continua a dimostrarsi di ottimo livello: professionale, paziente e spiritoso quanto basta anche con i passeggeri meno esperti. Molto buono anche il livello dell’inglese parlato.
Dormicchio un po’ fino alla colazione: un po’ di frutta per i gluten-free, una specie di nastrina (un po’ asciutta) per gli altri.
La nostra rotta.
Poco prima dell’arrivo entriamo in una holding pattern. Potrebbe essere il traffico intenso dell’ondata mattutina ad AUH. Poi, però, arriva l’annuncio del comandante: a causa della nebbia molto fitta, AUH è completamente chiuso. Verremo dirottati a Dubai Al-Maktoum, anch’esso peraltro avvolto nella nebbia e semideserto.
Arrivati a DWC alle 6:50 locali circa, il comandante si fa di nuovo sentire e fornisce ulteriori spiegazioni circa il proseguimento; l’equipaggio rimane calmo e invita tutti a restare seduti. La permanenza a terra dovrebbe essere di un’ora e mezza circa in attesa del rifornimento, per il quale bisognerà spegnere tutti gli apparecchi elettronici e rimanere seduti con le cinture slacciate. Dopo un po’ si alza la nebbia e viene offerta dell’acqua.
Ah, ma quindi quello è un 747-400BCF della National Air Cargo.
Intorno alle 8:00, d’un tratto, l’intero equipaggio sparisce, perlomeno dalla sezione di posteriore di economy. Intendo dire che non c’è proprio più nessuno. Anche dal cockpit non viene proferito verbo. I crocieristi, già sconvolti dall’atterraggio fuori programma e ansiosi di imbarcarsi sulla loro nave entro mezzogiorno, cominciano a innervosirsi: le banalità un tanto al chilo non si contano. “Questo è sequestro di persona, io chiamo l’ambasciata!”
Alle 8:45 finalmente si fa vivo il comandante: siamo rimasti fermi a terra per problemi burocratici non meglio specificati ma apparentemente irrisolvibili. Entro dieci minuti dovrebbe arrivare il pushback truck. Per le 9:15 siamo pronti a decollare dalla pista 12 del futuro hub megagalattico.
Se si eccettua Flight Simulator, questo rimarrà probabilmente il volo più breve che io abbia mai fatto con un widebody.
Il taxiing ad Abu Dhabi è infinito. Come se non bastasse, sbarcheremo ai remoti, togliendoci altri minuti preziosi per raggiungere la coincidenza (scesa da quattro ore a 40 minuti scarsi). Scendendo ringrazio gli assistenti di volo: nonostante la gestione non ottimale della sosta a DWC, sono rimasto positivamente colpito dalla qualità del servizio.
Passiamo i controlli di sicurezza, tanto inutili quanto sommari, e grazie a un gentile assistente di terra Etihad troviamo una scorciatoia fino al gate 34. Possiamo riprendere fiato, la fila per l’imbarco è molto lunga! Altri controlli del bagaglio a mano e poi finalmente saliamo a bordo del nostro 777-300ER.
AUH-MEL
EY462
10:30 LT – 07:00 LT (ATD: 12:20 LT – ATA: 07:56 LT)
Boeing 777-3FXER | LN: 1105 | First flight: 03/05/2013
A6-ETO
Seat 40C
A occhio e croce il riempimento in Y dovrebbe essere vicino al 100%. Mi congratulo per la mia scelta del posto: dalla fila successiva ci sono solo due posti invece di tre, ergo posso reclinare a piacimento. Le cappelliere sono piene, ma un’a/v ci aiuta a trovare posto più davanti.
Le fodere dei sedili hanno bisogno di una rinfrescata e il pitch è ai limiti della sopravvivenza per me, ma nel compresso la cabina non fa una brutta impressione. Amenity kit striminzito: mascherina, calzini, tappi per le orecchie e set spazzolino-dentifricio. L’IFE sembra di buona qualità ed è dotato di prese USB. Porta bicchiere un po’ basso.
Belle la moving map e le telecamere.
L’attesa a terra diventa più lunga del previsto a causa di un problema dei sistemi di check-in, per cui degli agenti di terra devono controllare manualmente le carte d’imbarco di qualche decina di passeggeri. Con quasi due ore di ritardo, infine, stacchiamo e ci avviamo lentamente verso non ricordo più quale testata.
Il ritardo e la massa di passeggeri da tenere d’occhio mi permettono di ricavare una prima impressione dell’equipaggio di cabina. Le aa/vv non sono scorbutiche, ma robotiche ai limiti dell’ansiogeno. In particolare, la ragazza filippina addetta alla nostra fila infonde la stessa rassicurante tranquillità di una paziente psichiatrica in crisi di astinenza da Prozac. Non avendo fatto caso al nome, per comodità la chiamerò Diazepam.
Mentre stacchiamo dal gate, dicevo, la stessa Diazepam passa accanto a me e stacca con decisione il cavo USB del mio telefono dalla presa dell’IFE. “This is not for takeoff or landing, Sir”, mi dice con un tono di voce un po’ troppo alto. E datti una calmata.
I GE90-115B del 77W sprigionano una potenza impressionante. In poco tempo siamo in volo per MEL e mi metto comodo in attesa del pasto, di nuovo speciale.
Tutte e tre le varianti sono diverse spanne al di sotto della media AZ, ma abbiamo fame e spazzoliamo comunque tutto. Diazepam continua a rassicurarci con il suo portamento regale e la sua aura di calma.
Il volo è maledettamente lungo.
Mi alzerò a più riprese per sgranchirmi le gambe e dare un’occhiata al resto della cabina di Y. Nel complesso è in buono stato. Bello il galley, molto curato, e gradevoli anche le toilette.
Il sorvolo dell’Oceano Indiano è piuttosto turbolento, le aa/vv dovranno tornare ai propri posti a più riprese. Per passare il tempo provo quella che per me è una novità, ovvero il wi-fi a bordo: divertente sorprendere i parenti con un messaggio da FL350, ma credo che continuerò a farne a meno in futuro.
Circa a metà volo viene servito uno snack, immangiabile.
La colazione, servita due ore prima dell’atterraggio, non è tanto meglio.
Fuori comincia ad albeggiare.
Non riuscendo a dormire, continuo a fare uso dell’IFE. Lo schermo, dicevo, è di buona qualità, mentre il sistema a tratti è un po’ lento. È seccante il fatto che mezz’ora prima dell’atterraggio venga mostrato un lungo e inutile filmato promozionale su Melbourne, e che non si possa più finire di guardare i programmi iniziati. Air Berlin almeno da questo punto di vista fa di meglio.
Non mi resta che seguire l’atterraggio sulla telecamera, che naturalmente a un certo punto si impalla. Vabbè, tanto si vede anche qualcosina fuori.
L’atterraggio a MEL avviene con circa un’ora di ritardo, abbiamo quindi poco meno di un’ora. Dopo una lunga attesa ai controlli di sicurezza in transito e un veloce pitstop sentiamo l’annuncio per i passeggeri del volo VA148 per Auckland che ancora necessitano di carta d’imbarco. Corriamo lì e ci dicono che è dalle 7 di mattina che ci cercano, il volo sarebbe chiuso già da 7 minuti. Ma com’è possibile che ci cerchino da un’ora e mezza, se tanto prima delle 8 non avremmo potuto sentirlo? L’unico annuncio che abbiamo sentito è stato quello di pochi minuti fa. Facciamo notare con fermezza questo fatto e per fortuna ci emettono lo stesso le carte d’imbarco.
Alquanto perplesso per questa faccenda, mi avvio verso l’aereo, che porta la livrea Virgin Samoa.
MEL-AKL
VA148
09:45 LT – 15:25 LT (on time)
Boeing 737-8FE | LN: 3851 | First flight: 11/11/2011
VH-YID
Seat 26F
Cabina molto gradevole: mood lighting e sedili in pelle nera con poggiatesta rossi e viola, in coordinato con le uniformi delle assistenti di volo.
Fauna locale e non.
Il volo è uneventful, il servizio essenziale. Solo acqua e caffè gratis, tutto il resto è a pagamento.
Dopo tre ore circa, finalmente, ce l’abbiamo fatta! Le coste della Nuova Zelanda sono proprio come me le ricordavo: di un bel verde intenso e punteggiate di pecore.
Welcome to the Land of the Long White Cloud!
Seconda parte: Auckland e il Northland
Comunque secondo me mi avete preso in giro: questo è palesemente il “Marco Polo” e noi in realtà non abbiamo mai lasciato l’Europa!
Ummm… non ricordo di aver mai visto né il Koru di Air New Zealand né Fiji Airways a Tessera. Stai a vedere che siamo veramente atterrati in Nuova Zelanda!
Sì, siamo proprio ad Auckland, ma mi sento come se fossi a casa. Scendendo dall’aereo provo la stessa sensazione che avevo provato durante il mio primo viaggio, quattordici anni fa: calma e benessere a fronte della consapevolezza di trovarsi a quasi 18.000 chilometri dal luogo di partenza. Circa un migliaio di chilometri più lontano, ma ancora al di qua della linea internazionale di cambio di data, ci sarebbero le Chatham Islands, tra l’altro raggiungibili con un volo diretto da Auckland operato da Air Chathams con un vetusto Convair 580. Ottima idea per il prossimo viaggio da queste parti.
Per ora sarà meglio procedere verso il controllo passaporti e mettersi in fila alla dogana, non prima di aver ammirato un altro po’ di fauna locale. È tutto così meravigliosamente esotico.
Pause foto comprese, in totale ci vorrà circa un’ora dall’atterraggio per mettere ufficialmente piede in Nuova Zelanda. Un amico di famiglia ci viene a prendere in auto per portarci fino alla nostra casa nel bel quartiere di Ponsonby, affittata su Airbnb: anche se la pulizia lascia un po’ a desiderare, nel complesso è molto gradevole.
Sono le cinque e mezza di pomeriggio, fuori fa caldo e c’è un bel giardino con terrazzo: di più, per ora, non mi serve.
L’indomani cominciamo con un giro in downtown Auckland. Amo le città di mare, e Auckland non fa eccezione.
Durante il nostro soggiorno sarà tempo di referendum per cambiare la bandiera e abbandonare lo Union Jack: l’iniziativa, appoggiata anche dal primo ministro John Key, non avrà successo.
Un giretto all’Auckland Fish Market riserva uno scorcio inaspettato. #nofilter, o come diavolo si dice su Instagram.
Il mercato del pesce è anche il luogo ideale per gustare un’ottima frittata di bianchetti.
Ben presto, vedendomi nel riflesso di una vetrina, mi accorgo di quanto bruci il sole nell’emisfero australe: sono bastate meno di due ore per farmi diventare più o meno del colore di un’aragosta. Meglio rientrare e prepararsi per la cena a casa del nostro amico, che ha una vista di tutto rispetto.
Il giorno seguente prendiamo un traghetto a caso e arriviamo sulla bella isola di Waiheke: un piccolo paradiso, turistico ma non troppo, a soli quaranta minuti da Auckland.
Spiagge affollate.
Auckland è detta the City of Sails, ed è evidente perché.
Arredamento creativo in un bar(acchino) poco lontano dal ferry terminal.
Avere una casa intera a disposizione ci permette di lasciare comodamente i bagagli più ingombranti e fare una gita di due giorni nella Bay of Islands, a circa quattro ore di autobus. Quest’ultimo è molto comodo, puntuale, dotato di wifi e soprattutto a buon mercato.
Per non parlare della vista dal finestrino.
Facciamo base a Paihia, da dove in venti minuti a piedi si arriva ai Waitangi Treaty Grounds, dove nel 1840 fu firmato il trattato fra l’Impero britannico e i capi maori che pose fine ai conflitti fra europei e indigeni. Molto interessante anche per capire un po’ meglio i rapporti odierni fra la popolazione di origine europea e i maori.
Se andate a Paihia, fate un salto anche a Russell, dall’altra parte della baia. Bastano pochi minuti di traghetto ed è un bel modo per passare un paio d’ore. Noi ne approfittiamo per gustare della birra locale, oltre a una delle pizze più buone mai assaggiate.
Dopo una notte a Paihia è tempo di prendere di nuovo il bus InterCity e scendere verso Warkworth, dove andiamo a trovare i genitori del mio amico. Avevo soggiornato a casa loro durante la mia prima vacanza in Nuova Zelanda e non vedo l’ora di rivederli!
Ah, anche la casa per gli ospiti ha una vista niente male. Così, per colazione.
Una cosuccia da niente.
Una scaletta verso la spiaggia privata non la vuoi mettere?
… Vabbè, sto esagerando: la spiaggia se la dividono con altre due famiglie.
Mentre cerco di recuperare la mandibola per la seconda volta alla vista di una copia fedele della Casa sulla Cascata di Frank Lloyd Wright, i nostri ospiti ci portano al farmers’ market nel vicino villaggio di Matakana. È un posto molto, molto godibile che offre prelibatezze per ogni palato. In particolare ci fermiamo davanti allo stand di due signore che vendono olio d’oliva prodotto in loco. È davvero buono, tanto che ne compriamo due bottiglie. Scopriremo inoltre che le signore sono due ex commercialiste di Milano trasferitesi qui una ventina d’anni fa, beate loro.
Farfalle in ogni dove.
L’ultimo giorno ad Auckland il nostro amico ci porta in un luogo davvero insolito, ovvero Bethells Beach, caratterizzata da sabbia vulcanica e contrasti cromatici spettacolari. Notevole il vicino lago Wainamu, situato in fondo a una distesa di dune dall’aspetto lunare.
Terza parte: aria sulfurea, Dash 8 e baccalà mantecato
Mentre a Bethells Beach sembrava quasi di essere sulla Luna, la mattina seguente vedo le stelle grazie a una valigia pesante e a uno scalino scivoloso sulla porta di casa che mi “regalano” un insaccamento alla schiena. Il tassista che ci aspetta davanti a casa non fa una piega e aspetta che io mi riprenda (ci vorrà un quarto d’ora). Pochi minuti dopo arriviamo allo Sky City Bus Terminal, da dove alle 8:00 partiremo di nuovo con un autobus InterCity verso Rotorua.
Rotorua è un posto che, per certi versi, mi ha sorpreso. Nota stazione termale sin dai primi del ‘900, e naturalmente pervasa da un forte odore di zolfo, oggigiorno è uno dei principali centri turistici dell’Isola Nord. Forse per questa sua fama avevo delle aspettative piuttosto basse, ma scopriamo con piacere che ci sono diverse cose interessanti da vedere.
Un tipico mezzo anfibio risalente al secondo conflitto mondiale e oggi usato per giri turistici.
Sul lungolago, invece, è possibile vedere diversi tipi di volatili, fra cui un DeHavilland DHC3 Otter della Volcanic Air.
Una sorta di mini “rambla”…
… a pochi minuti a piedi dai Government Gardens, ove si trova anche il Rotorua Museum. Ex stabilimento termale, a suo tempo era anche la meta dei reduci di guerra dell’Impero per curarsi dopo la trincea. Oggi ospita mostre di vario tipo, fra cui quelle permanenti sulla storia della Nuova Zelanda nonché dell’edificio stesso.
La sezione sulla storia dei maori è molto completa e arriva fino ai giorni nostri, coprendone anche aspetti meno conosciuti come il battaglione che partecipò alla seconda Guerra Mondiale.
Fra le mostre temporanee ricordo con curiosità quella sui tea towels, molto amati dai neozelandesi. Detta così fa ridere, ma in realtà ce n’erano di molto belli.
Ma facciamo un altro giro nei giardini. Qui scorrazzano liberamente innumerevoli pūkeko, per comodità da me chiamati fagiani.
Dettaglio della recinzione del parco.
La sera, dopo cena, decidiamo di passare un paio d’ore di relax alle terme. L’opzione più comoda è la Polynesian Spa, di cui non ho foto: è una spa con numerose piscine all’aperto affacciate sul lago. Immergersi nell’acqua calda (fra i 38 e i 42 gradi centigradi) in questo contesto è molto suggestivo, e persino la leggera pioggia che picchietta sulla pelle è molto piacevole.
Molto salutari anche i trattamenti con il fango.
Ah, no, quello era il museo!
Il giorno dopo facciamo un’altra passeggiata prima di prendere un taxi per l’aeroporto.
Come tutti gli aeroporti neozelandesi adibiti esclusivamente al traffico nazionale, quello di Rotorua non contempla i controlli di sicurezza: entrando nell’aerostazione si ha libero accesso al gate e al nastro bagagli.
Ai banchi check-in non c’è nessuno, nemmeno il personale. Bisogna chiamarlo col campanello.
D’altronde i voli non sono tanti.
La carta d’imbarco (scusate, è già spiegazzata) e le etichette del bagaglio ce le stampiamo alle macchinette self check-in, semplici e comode da usare.
Forse non tutti sanno che Rotorua dette i natali a una famosa aviatrice neozelandese, Jean Batten: nata qui nel 1909, fra le altre cose fu la prima a volare in solitaria dalla Nuova Zelanda all’Inghilterra, nel 1936. Inoltre era solita portarsi appresso un abito da sera in ogni impresa aviatoria, in modo da essere perfetta anche ai ricevimenti in suo onore. Morì in solitudine a Mallorca in seguito al morso di un cane, per il quale rifiutò di farsi curare.
Una ventina di minuti prima del decollo arriva il Dash 8-Q300 nella nuova livrea Air New Zealand, che mi piace parecchio.
ROT-WLG
NZ8631
17:05 LT – 18:15 LT (ATD: 17:25 LT – ATA: 18:25 LT)
Bombardier Dash 8-Q311 | MSN: 647 | First flight: 28/03/2007
ZK-NEU
Seat 07D
Pare che il regolamento vieti di utilizzare apparecchi elettronici sul piazzale, quindi faccio a meno della solita foto sotto bordo e passo direttamente agli interni. Ci dà il benvenuto un’assistente di volo alta come minimo 1,80 e con un fisico da nuotatrice. Non mi arrischio a farle una foto.
La cabina ha un bell’aspetto.
Foto di rito. Adoro il senso dell’umorismo kiwi.
Date le ridotte dimensioni dell’aeroporto, il rullaggio è rapidissimo e in breve siamo già in decollo. Per la prima volta vedo delle proptrails.
Nonostante il volo sia breve viene comunque offerto un piccolo servizio di bordo, con acqua, caffè e biscotti, in quest’ordine preciso: l’assistente di volo non usa un carrello, ma passa a più riprese per la cabina.
Fuori si comincia a intravvedere un po’ il bel paesaggio neozelandese.
Osservando le rotte di avvicinamento a WLG su Flightradar ho pensato che un posto al finestrino sul lato destro sarebbe stato opportuno, e non mi sono sbagliato: si vede tutta la città.
WLG pare sia un aeroporto “difficile” anche a causa del forte vento che soffia da queste parti, ma l’atterraggio è tranquillo. Sbarchiamo senza problemi e ci ritroviamo, letteralmente, nel mezzo della Terra di Mezzo.
Arriviamo in albergo sulle sei e mezza di sera e dopo esserci dati una rinfrescata cerchiamo un posto dove mangiare. La prima impressione di Wellington è quella di una città molto diversa da Auckland, forse un po’ bohémien, un po’ più disordinata e un po’ meno pulita (per quanto sia possibile da queste parti). È anche una città segnata da un miscuglio di architettura vittoriana ed edifici moderni, spesso in stile brutalista. Ha un che di Berlino, in questa sua scruffiness.
L’albergo, “The Setup on Manners”, è moderno ed estremamente centrale. L’unico problema è che può capitare di ritrovarsi una camera senza una vera finestra, ma per il resto è ideale per esplorare la città. È anche molto vicino a Cuba Street, che pare essere la via principale dei ristoranti e della vita notturna. Per questa prima sera, dunque, restiamo nei paraggi e cerchiamo di trovare qualcosa da mangiare, imbattendoci casualmente in un locale dal nome promettente: “Ombra”. Vuoi vedere che…?
Ecco, sono dall’altra parte del mondo e la prima cosa che trovo è il baccalà mantecato. A casa a Berlino pare un sogno irrealizzabile, una di quelle cose per cui sono pronto a prendere l’aereo e andare a Venezia in giornata (già fatto in passato…). Qualcuno mi dica che non sto sognando!
Quarta parte: Wellington
Wellington, pur non presentando forse quell’atmosfera tipica delle città di mare, dispone comunque di un waterfront di tutto rispetto che invita a rilassarsi di fronte a una birra.
Un po’ di street art non guasta mai.
La capitale neozelandese ha anche il pregio di trovarsi a un tiro di schioppo da riserve naturali come Zealandia, un ex bacino idrografico ora trasformato in un santuario della natura circondato da una speciale recinzione antiparassiti. Una specie di Jurassic Park, con la differenza che al massimo si vedono delle lucertole e degli uccelli sull’orlo dell’estinzione.
Una comoda navetta parte ogni mezz’ora dal centro informazioni turistiche a pochi passi dall’hotel e in un quarto d’ora ci scarica qui.
Una volta entrati domina il verde. L’intera riserva ricopre un’area di 225 ettari, offrendo molti paesaggi suggestivi e la possibilità di vedere numerose specie di pappagalli e altri volatili.
Kākāriki dalla fronte rossa.
Takahē. Ritenuto estinto, venne riscoperto nel 1948 dal medico neozelandese Geoffrey Orbell.
Riroriro.
Anche in città si vedono dei volatili, ma di altro tipo.
Merita senz’altro una visita il museo nazionale Te Papa Tongarewa. Fino al 2018 ospiterà la mostra “Gallipoli: The scale of our war”, che racconta l’impegno delle truppe neozelandesi in Turchia durante la prima Guerra Mondiale. Nella mostra, curata dal Weta Workshop (conosciuto per aver curato la produzione del “Signore degli Anelli”), fanno da filo conduttore le storie di otto personaggi realmente resistiti e riprodotti in ogni minimo dettaglio in statue a grandezza più che naturale (2,4 volte). L’effetto è difficile da cogliere in foto, ma dal vivo è impressionante.
Nel resto del museo viene presentata la storia della Nuova Zelanda, anche dal punto di vista naturale: trovo simpatico questo tabellone aeroportuale che illustra come e quando siano arrivate diverse specie di animali non native dell’isola.
Fra Auckland e Wellington pare ci sia una rivalità non troppo dissimile da quella fra Milano e Roma, o fra Berlino e Monaco (o Amburgo). Io le trovo entrambe molto piacevoli, ciascuna a proprio modo, e spero di tornarci.
Siamo più o meno a metà del nostro viaggio, avendo percorso quasi tutta la North Island. Nella seconda metà di questo trip report toccherà alla South Island, ricca di natura e di contrasti.
Per leggere la seconda parte del racconto, cliccare qui: New Zealand 2016, part 2 – South Island.