Per leggere la prima parte del racconto, cliccare qui: New Zealand 2016, part 1 – North Island.
È giunto il momento di imbarcarsi per la South Island: optiamo per una traversata in traghetto con la linea Interislander.
Il nome del traghetto mi ricorda qualcosa…
Forse non tutti sanno che questa rotta non va propriamente da nord a sud, bensì da est a ovest.
Amo viaggiare in nave ancor più che in treno. Mi rilassa uscire sul ponte, magari prendere un po’ di sole, e godermi appieno quell’aria di mare che mi manca così tanto a Berlino, senza contare il panorama.
Bastano quattro ore scarse per approdare nel tranquillo porticciolo di Picton. È mezzogiorno e mezzo e nel tardo pomeriggio proseguiremo per Nelson: qualche ora di relax fa sempre bene.
Quinta parte: il Paradiso in Terra
Per l’ultimo tragitto in bus ci affidiamo nuovamente alla InterCity. Una costante dei viaggi fatti finora è la loquacità dei conducenti: in particolare, la signora al volante quest’oggi non lesina in fatto di curiosità e informazioni turistiche lungo il percorso fino a Nelson.
L’intera regione del Marlborough è particolarmente felice dal punto di vista geografico e climatico: dai fiordi visti poche ora prima si passa a belle distese di coltivazioni varie e vigneti. Non sorprende il fatto che anche fra i vini si trovino delle bottiglie più che decenti: ricordo dei buoni Sauvignon Blanc, oltre che degli eccellenti Chardonnay (uno su tutti, anche se non è di questa regione, lo Chardonnay 2012 Escarpment).
La conducente, dicevo, è ciarliera e sembra amare molto la sua terra. Arrivando a Nelson ci dice semplicemente di guardare a destra “to see some awesomeness”. Come darle torto?
Qui a Nelson ci affidiamo di nuovo a Airbnb e alloggiamo in una bellissima casa ad appena dieci minuti a piedi dal centro. Situata sulla Tasman Bay, la città ha una popolazione di circa 46.000 abitanti ed è baciata dal sole: nell’Ottocento veniva chiamata “la Napoli dell’emisfero australe”.
Non sarà Napoli, ma accidenti se è un bel posto dove passare qualche giorno di vacanza.
Trafalgar Street (la città ovviamente è stata chiamata così in onore di Horatio Nelson).
Beh, dai, un difettuccio questa Nuova Zelanda ce l’ha… bere costa abbastanza, in media sui 9-10 dollari per una birra, l’equivalente di circa 6 euro. In compenso si trova roba buona.
Poco fuori città c’è la spiaggia di Tahunanui. Al weekend ci sono pochissimi autobus, quindi ci tocca prendere un taxi, ma ne vale la pena, se non altro per la vista!
Peccato che sia così affollata.
Non credo di aver ancora menzionato il motivo principale della tappa a Nelson. A un’ora e mezza da qui si trova l’Abel Tasman National Park. È il parco nazionale più piccolo di tutta la Nuova Zelanda e allo stesso tempo forse il più spettacolare: 225 chilometri quadrati di pura, incontaminata bellezza raggiungibile quasi solo via mare. Toglie talmente il fiato che ci andiamo due giorni di fila grazie a un comodo trasferimento in bus e un battello che ci lascia in una delle innumerevoli baie. Da lì è possibile seguire i vari sentieri e risalire a bordo da un’altra spiaggia.
Lascio parlare le immagini, che è meglio.
Qui, Quo, Qua.
Otarie al sole sugli scogli di Adele Island. Hello from the other siiiiide…
Non esagero quando dico che è uno dei luoghi più incantevoli che io abbia mai potuto visitare. Lo consiglio veramente a chiunque pensi di andare in Nuova Zelanda.
A Nelson si mangia pure bene: questo pesce spada era delizioso. In generale, purtroppo, i kiwi hanno un po’ il vizio di rovinare degli ingredienti altrimenti freschissimi e di ottima qualità friggendoli, ma ogni tanto si trovano delle eccezioni da leccarsi i baffi.
Sesta parte: calcinacci e scogliere
Oltre a essere un gran bel posto, Nelson è anche piuttosto ben collegata: numerosi voli giornalieri permettono di raggiungere tutte le più importanti località del Paese, da Dunedin (nell’estremo sud) a Auckland.
L’aeroporto è il sesto più grande della Nuova Zelanda, con poco meno di 750.000 passeggeri nel 2015, il settimo più trafficato come numero di movimenti, ed è la base di Air Nelson, altrimenti nota come compagnia regionale di Air New Zealand. Quest’ultima ne ha fatto il proprio principale centro di manutenzione della flotta regionale con un investimento di 30 milioni di dollari. Qui vengono a fare il tagliando anche gli ATR 72-500 e -600 di un’altra sussidiaria regionale, Mount Cook Airline, di cui abbiamo una diapositiva.
Foto di rito.
Di fianco all’ingresso del terminal si può sbirciare nell’ipertecnologico Baggage Handling System di NSN.
Come a Rotorua, anche a Nelson non esistono i controlli di sicurezza: dietro al banco Jetstar, sulla sinistra, c’è già il gate.
Wellington, Christchurch e Auckland sono ovviamente le principali destinazioni.
La cosa che mi piace di più di questo aeroporto è la terrazza panoramica. Niente recinzioni, niente vetrate, solo un po’ di sano odore di cherosene e il fragore dei vari tipi di frullini presenti sul piazzale.
Non mancano le chicche, come questo Saab 340 Kiwi Air…
… e questo Cessna 208 Sounds Air arrivato da Paraparaumu (poco a nord di Wellington) con un solo passeggero a bordo.
Ora di punta.
NSN-CHC
NZ8511
10:05 LT – 10:55 LT (ATD: 10:25 LT – ATA: 11:15 LT)
Bombardier Dash 8-Q311 | MSN: 625 | First flight: 19/04/2006
ZK-NEJ
Seat 09B
Il nostro Dash 8, questa volta, porta ancora la vecchia livrea, ma dentro è sostanzialmente identico a quello del volo precedente. Anche il servizio è praticamente lo stesso, con la differenza che l’assistente di volo (un ragazzo abbastanza giovane con una voce radiofonica e un’impostazione vagamente militaresca) distribuisce un quadratino di fudge invece del biscotto.
Ho poche foto, sia perché ero seduto al corridoio, sia perché fuori il tempo rimarrà nuvoloso per quasi tutta la fase di crociera. Riesco comunque a fare una foto di sfuggita all’aeroporto di Nelson dopo il decollo.
Avvicinamento a Christchurch.
Scusate i riflessi… contro le vetrate c’è poco da fare, purtroppo.
Non so se si fosse capito, ma sono un grande estimatore di Air New Zealand, compagnia dall’immagine sempre curatissima. L’attenzione ai dettagli e al branding si vede anche da cose come questa.
L’aeroporto di Christchurch, molto moderno, si trova a circa una ventina di minuti di taxi dal centro. Per questo transfer, come peraltro abbiamo già fatto a Wellington e a Nelson, optiamo per un “Super Shuttle”, ovvero un pulmino da nove posti con carrello bagagli condiviso con altri passeggeri: costa pochissimo rispetto a un taxi normale, e soprattutto la prenotazione direttamente tramite Air New Zealand è molto comoda.
Dopo una ventina di minuti, dunque, arriviamo al BreakFree on Cashel, struttura molto recente con stanze piccole dall’allure oltremodo futuristica: mood lighting, cabine-bagno in vetro smerigliato e pannelli di controllo sul comodino da fare invidia a una stazione spaziale.
Fuori, il panorama è meno scintillante.
Il centro di Christchurch, come è noto, venne completamente raso al suolo da un terremoto di 6,3 gradi sulla scala Richter nel febbraio del 2011, e si trova in gran parte ancora nel bel mezzo della fase di ricostruzione. Dopo il disastro ci fu una sorta di esodo di giovani verso Auckland e altre località, ma gli abitanti non si sono persi d’animo e si stanno dando da fare per tornare alla normalità.
È difficile descrivere le sensazioni che ho provato in questa città. Da un lato si sente il peso di una tragedia in cui hanno perso la vita quasi duecento persone, dall’altro i numerosi sprazzi di colore e di vitalità sembrano delle ottime premesse perché questo trauma venga superato nel giro di pochi anni.
Il centro commerciale Re:start, interamente composto di coloratissimi container, è forse il luogo che mi ha maggiormente sorpreso.
La cattedrale è ancora un mezzo cumulo di macerie. Impressionante il silenzio che regna nella piazza antistante.
Un po’ di creatività non può che fare bene.
Esiste anche una piccola rete tranviaria, che fra l’altro passa attraverso questo edificio.
Un pomeriggio a Christchurch è sufficiente per farsi un’idea di come si viva in una città il cui centro è stato completamente distrutto. Sarei curioso di tornarci fra qualche anno per vedere quanto sarà cambiata (sul “se” non ho dubbi). La sosta in questa città, comunque, è funzionale all’ultima attività di questo viaggio: partiremo l’indomani di primo mattino con il treno panoramico “Coastal Pacific” per una gita in giornata nel paesino di Kaikoura.
Al check-in, nella minuscola stazione di Christchurch, ci vengono consegnate delle carte d’imbarco del tutto simili a quelle di una compagnia aerea. Il cambio di sesso sembra essere compreso nel prezzo.
Foto indecente, scusate.
Il treno è molto comodo e naturalmente offre un’ottima vista, con tanto di “IFE”.
Pecore, pecore ovunque.
Oltre alle ampie vetrate, una caratteristica di questo treno è l’ultima carrozza, sprovvista di finestrini in modo da permettere di fotografare al meglio lo spettacolare paesaggio.
Kaikoura è la principale base di partenza per il whale watching da queste parti, ma noi ne facciamo a meno (credo che non ci fosse più posto) e optiamo per una passeggiata sulla sterminata spiaggia. Non c’è granché da fare né da vedere, quindi ne approfitto per farmi dare una spuntatina ai capelli.
È ora di tornare.
Per le 18:30 circa siamo di ritorno a Christchurch. Ceniamo direttamente nel ristorante dell’albergo poiché domani bisognerà partire per l’aeroporto alle tre e mezza del mattino. Comincia il lungo ritorno in Europa, e comincia già a farsi sentire un po’ di malinconia.
Settima parte: the long way home
Malinconia, per l’appunto. Me ne devo fare una ragione, come del resto devo rassegnarmi all’idea che due ore di sonno sono il massimo a cui posso aspirare, visto che il nostro Super Shuttle viene a prenderci alle tre e mezza.
Un leggero ritardo nell’arrivo del mezzo, amplificato dall’attesa dell’ultimo passeggero da qualche parte nella periferia di Christchurch (che poi non salirà, essendo stato praticamente svegliato dal conducente che si è preso la briga di andare a bussare), ci fa arrivare in aeroporto circa un quarto d’ora prima della chiusura del check-in. Calmati i bollenti spiriti, constatiamo che la fila ai check-in Virgin Australia è lunga e non c’è da preoccuparsi.
Le partenze internazionali di oggi occupano a malapena mezzo schermo; per i voli nazionali, invece, la lista è decisamente più lunga.
Ho tutto il tempo di fare qualche foto al futuristico terminal.
Ci vuole più di mezz’ora per smaltire la fila. Quando arriva il nostro turno l’orario limite di 90 minuti prima del decollo è stato superato da un pezzo, ma questo per fortuna non sembra essere un problema: le signore dietro ai banchi, tutte piuttosto attempate (modello babbiona del Commonwealth, come le definisce la consorte), non fanno una piega. Il mio tentativo di strappare un through check-in dei bagagli fino a MXP risulta vano: avendo due biglietti separati, dovremo rifare il check-in a Sydney. Poco male, era comunque quello che avevamo previsto di fare.
L’itinerario di oggi, infatti, prevede una sosta di più di dodici ore nella città australiana. Per me sarà l’occasione, a distanza di quattordici anni, di recuperare finalmente quella visita della città che avevo rinunciato a fare con uno scalo di sette ore. Meglio tardi che mai!
I controlli di sicurezza sono rapidi, nel giro di dieci minuti siamo già airside.
Il molo internazionale di CHC è moderno e gradevole. La moquette, insomma…
CHC-SYD
VA133
06:00 LT – 07:35 LT (on time)
Boeing 737-8FE | LN: 3718 | First flight: 11/07/2011
VH-YIA
Seat 25B
L’imbarco comincia intorno alle 5:40, se non sbaglio.
Come VH-YID, che ci aveva portati da MEL ad AKL, anche -YIA ha lo Sky Interior. Indubbiamente è molto d’effetto.
Mi perdonerete, spero, se sarò parco di commenti per quanto riguarda questa tratta. Il sonno ha la meglio, ma non prima di passare uno dei minuti più brutti della mia vita sorvolando le Alpi meridionali: raramente mi è capitata una turbolenza del genere, e raramente ho avuto così tanta… strizza. Quasi me ne vergogno, ma in fondo è umano.
Meno male che non avevo ancora preso il caffè. Brodaglia imbevibile, ovviamente, e versata in quantità disumane: devo ancora trovare l’a/v che capisca il concetto di solo mezzo bicchiere, per favore.
Manca circa un’ora all’atterraggio, e fuori la natura sfoggia una sinfonia di colori.
It’s a bright new day in the Land of Oz.
A occhio e croce direi che siamo atterrati sulla 34R, ma non ci metterei la mano sul fuoco.
Altrettanto a occhio e croce presumo che siamo al gate 55, schiacciati in mezzo fra un 77W AA e un 77W Virgin Australia.
Comincia la solita trafila del controllo passaporti, con una fila discretamente lunga che ben presto viene distribuita su tutti i varchi. La signora che mi dà il benvenuto in Australia non è di quelle persone che danno il benvenuto. Nel campo “Address while in Australia” ho scritto solo “Sydney NSW” e ho lasciato uno spazio, non intendendo fermarmi oltre le nove di stasera: quasi seccata, se non schifata, la signora aggiunge la dicitura “Transit” e mi chiede il numero di volo o la destinazione. EY455 to Abu Dhabi, ma’am.
Alla dogana, avendo dichiarato di aver visitato luoghi all’aperto e di aver camminato su terriccio et similia, faccio vedere le scarpe utilizzate per l’escursione al parco Abel Tasman: l’agente è più cordiale della signora dell’immigration e ci fa passare senza problemi.
Alla fine ci è voluta solo un’oretta: sono le otto e mezza di mattina quando mettiamo ufficialmente piede in Australia. Lasciamo i bagagli al deposito per la modica cifra di un centinaio di dollari australiani, e per altri quaranta a testa ci procuriamo il credito necessario per la Opal Card, l’equivalente di una Oyster Card londinese.
Il collegamento con il centro è molto comodo.
Scendiamo a Circular Quay e per prima cosa vediamo l’ammiraglia della Cunard, la Queen Mary 2: bentrovata! Ad Auckland avevamo visto la sorella minore, la Queen Victoria.
Bastano pochi passi per scorgere la Sydney Opera House. È dal 2002 che aspetto di vederla, quindi le dedico il giusto tempo sotto il sole cocente.
Oh, a me piace. Gradevoli anche i Royal Botanic Gardens, che quest’anno festeggiano il bicentenario.
Cosa sarebbe una visita a Sydney senza un giro della baia? Vorrei fare una crociera, ma giustamente mi si fa notare che basta prendere uno dei traghetti di linea per ottenere lo stesso risultato spendendo molto meno. Cogliamo due piccioni con una fava e andiamo fino a Darling Harbour in modo da poter raggiungere a piedi il Sydney Fish Market.
Ma quanto è grande?
Saranno circa settecento metri da Darling Harbour al mercato, ma con quest’afa mi sembra di andare dal Pireo all’Acropoli a piedi a ferragosto. Almeno ne è valsa la pena: è un posto meravigliosamente caotico quanto turistico, e soprattutto ricco di scelta per mangiare qualcosa al sole.
Oltre ai gabbiani, il mercato pullula anche di ibis.
Prendiamo di nuovo il traghetto fino a Circular Quay e facciamo due passi fino a Town Hall. Accanto a qualche edificio di epoca vittoriana non mancano i grattacieli moderni.
Ho passato solo poche ore a Sydney, ma quel poco che ho visto mi è piaciuto parecchio. È senz’altro sulla mia lista di città da rivedere con più calma.
Ottava parte: balene e caffè espresso
Dopo aver brevemente ricaricato la Opal Card (mancavano pochi dollari per poter tornare indietro) ci riavviamo di nuovo verso il Kingsford Smith. L’area check-in del terminal internazionale non è granché, ma se non altro è spaziosa.
Questa volta riusciamo ad avere dei posti vicini anche sulla tratta operata da Alitalia.
È presto, quindi ci tratteniamo ancora un po’ nell’area immediatamente prima dei controlli di sicurezza. Si vedono anche un po’ di aerei, nonostante la doppia vetrata, e il people watching dei passeggeri in partenza è discretamente divertente.
Attraverso questa vetrata, a un certo punto, ha luogo un dialogo a gesti con un signore di mezza età che ci fa vedere la sua carta d’imbarco e il passaporto (tedesco), indicando in maniera concitata qualcosa dietro di noi. Dopo qualche istante ci rendiamo conto che ha dimenticato il suo giubbino prima dei controlli, ed essendo anche lui in viaggio per Abu Dhabi ci prega di portargliela al gate.
Esito un attimo, temendo una potenziale fregatura. Facciamo cenno di sì al signore e giriamo l’angolo per ispezionare ogni centimetro quadrato dell’indumento: una volta constatato che si tratta di un semplice giubbino di pile, nemmeno di quelli imbottiti (quindi senza fodere interne in cui nascondere qualcosa), decidiamo di portarcelo dietro. In fondo c’è pure scritto Bayerisches Rotes Kreuz, Croce Rossa Bavarese: ci fidiamo.
I controlli di sicurezza a Sydney sono un’esperienza da dimenticare: raramente mi è capitato di vedere degli agenti così scazzati, sgarbati e pure insolenti.
Si fa notare, in particolare, la signora che controlla i bagagli al mio varco. Comincia a tastare in maniera scomposta la mia borsa farfugliando qualcosa su delle forbicine da unghie: le faccio presente con quanta più gentilezza possibile che posso darle una mano e tirare fuori il pericolosissimo utensile, che viene prontamente sequestrato. Il tutto senza dire né buongiorno né grazie.
La stessa sorte tocca alla passeggera dopo di me, una ragazza orientale, che si vede confiscare con il medesimo garbo una forbicina dall’aspetto costoso. Quasi piangendo per il dispiacere di doverla buttare via, la ragazza fa notare che negli USA è passata senza problemi. L’acida addetta ai controlli risponde sostanzialmente prendendo in giro la ragazza (qualcosa come “Oh, davvero non c’è nessuno landside che la possa prendere in consegna? Dovrà proprio comprarne una nuova, che peccato!”) e aggiungendo che “I don’t care what they do in the US, this is Austraaahlia!”.
Ancora interdetto per questo episodio, al varco successivo recupero la consorte, visibilmente alterata perché gli addetti ai controlli le hanno perso la carta d’imbarco strappandole di mano anzitempo la vaschetta in cui aveva riposto la sua borsa. La cercano palesemente controvoglia e, dopo qualche minuto, finalmente la ritrovano.
Esperienza da dimenticare, comunque possiamo andare. Ah, la giacca di pile ovviamente era una semplicissima giacca di pile che prontamente restituiamo al legittimo proprietario.
Il molo è parzialmente chiuso per lavori. C’è un po’ troppa gente per i miei gusti, quindi vado dritto al gate, dove l’equipaggio è in attesa di salire a bordo (mi scuso per la foto mossa, l’ho fatta di sfuggita). L’aereo non è ancora visibile.
SYD-AUH
EY455
21:50 LT – 05:30 LT (on time)
Airbus A380-861 | MSN: 180 | First flight: 28/04/2014
A6-APD
Seat 78H
L’imbarco comincia circa 45 minuti prima del decollo. Per primi vengono chiamati i passeggeri che necessitano di assistenza (conto almeno sette sedie a rotelle) e le famiglie con bambini. Subito dopo inizia il lungo processo di imbarco del ponte inferiore, interamente dedicato all’economy class (le altre classi imbarcano dal finger al ponte superiore). Siamo seduti nell’ultima sezione di Y, quindi possiamo salire per primi.
Eccolo, il mio primo Cicciobus. Non sarà particolarmente aggraziato, però è certamente impressionante.
L’impressione, nell’istante in cui metto piede nella cabina, è quella di un ambiente davvero molto spazioso. Certo è d’aiuto il fatto che sia tutto nuovo e scintillante.
Le foto fanno pena, ma questa è l’economy: è più comoda di quanto non sembri, anche il poggiatesta “fisso”.
Ala sterminata.
Comincio a esaminare attentamente il sedile, tenendo d’occhio il blocco centrale accanto a me che ha tre posti vuoti: una volta finito l’imbarco me ne impossesserò.
Pitch così così, anche se leggermente migliore rispetto al 77W EY.
Il PTV è di ottima qualità e gli schermi abbondano in tutta la cabina.
Interessanti anche certi particolari come il portabicchiere, dotato di un elemento basculante. L’idea è buona, ma nella pratica si rivela del tutto inutile in quanto il bordo dei bicchieri di plastica è troppo largo e va a bloccare il tutto.
Per gli amanti del genere, che poi sarei anch’io.
Avere un’attesa di oltre dodici ore fra un volo e l’altro è una gran cosa se la seconda tratta è molto lunga. Un’afosa giornata a Sydney con temperature intorno ai 35 gradi, nello specifico, è perfetta per stancarsi abbastanza da poter dormire anche seduti in barbon class per quattordici ore di fila, peraltro tutte in notturna. Riuscirò a chiudere occhio almeno per qualche ora?
Le assistenti di volo sembrano più rilassate rispetto a quelle del volo da AUH a MEL. Finiti i preparativi, cominciamo il lungo rullaggio verso non so quale testata.
Intorno alle 22:15 si parte. Almeno questo è ciò che desumo vedendo la telecamera, ma potremmo anche essere ancora in fase di rullaggio, tanto è impercettibile il rombo dei motori.
Va bene, sto esagerando: il rumore dei quattro GP7270, ciascuno con una spinta di oltre 310 kilonewton, si sente, ma è molto silenzioso rispetto a qualunque altro aereo con cui io abbia mai volato. Che aereo!
Anche stavolta i pasti speciali ci permettono di mangiare dopo nemmeno mezz’ora dal decollo. Credo che il mio sia una specie di spezzatino con riso e verdure, non meglio definito ma senz’altro mangiabile. Buoni gli spinaci, e buono il dolcetto con cocco e ganache di cioccolato.
Spazzolo tutto e cerco di mettermi comodo. Ho a disposizione due sedili, che cerco di sfruttare distendendomi parzialmente, ma non funziona: meglio restare seduto e reclinare fino in fondo il sedile, tanto più che dietro di me non c’è nessuno.
È difficile addormentarsi in aereo, soprattutto se nell’ultima fila una montagna di lardo emette dei suoni che non ho mai sentito in vita mia: una via di mezzo fra una nave in partenza, una caffettiera e un cane rabbioso. A nulla valgono i tentativi di fermarlo urtandolo “per sbaglio” andando verso le toilette.
Tento di ignorarlo mettendo anche i tappi per le orecchie, cosa che non faccio mai, ma si sente lo stesso. E ci sono dieci file fra di noi: provo una pena immensa per la signora seduta accanto a questo prodigio della natura, che rimarrà bloccata al finestrino.
Metto su qualcosa a caso sull’IFE, abbastanza ben fornito, e… mi risveglio che abbiamo appena lasciato le coste della Western Australia. Direi che un paio di ore di sonno me le sono fatte!
Mi alzo per fare due passi e dare un’occhiata alla cabina: purtroppo è buio e non riesco a fare molte foto. Questa è una delle toilette in fondo alla cabina di economy: anche se la carta da parati sembra un po’ il campo minato di Windows, in generale l’impressione è ottima. Oltretutto rimarrà anche molto pulita per l’intera durata del volo.
Una volta sgranchitomi un po’ le gambe, mi rimetto comodo e cerco di riposare un altro po’.
Mi risveglio a metà strada fra il subcontinente indiano e la penisola araba: mai dormito così a lungo in aereo, nemmeno su un flat bed.
Mancano un paio d’ore all’arrivo: è ora di colazione. Mangiabile, ma nulla di più.
Sono proprio di buon umore dopo questa dormita, mi capita davvero di rado persino a casa di dormire 7-8 ore di fila. Sarà il caso di esplorare un po’ questo IFE, soprattutto le varie funzioni della mappa.
Molto bella anche la pagina con l’elenco dei voli in coincidenza.
La discesa verso AUH termina con una bella legnata sulla pista, in parte assorbita dalla stazza del’A380. Il grosso del viaggio di ritorno è fatto!
Segue il solito, infinito rullaggio ad AUH e un’altrettanto lunga procedura di sbarco. Avendo quasi quattro ore prima del nostro volo per MXP, lasciamo che scendano tutti prima di sbarcare. Passati di nuovo gli inutili controlli di sicurezza ci ritroviamo, dunque, in mezzo a un viavai di passeggeri da ogni dove.
AUH non mi è sembrato un granché: troppa gente, troppi negozi, troppo poco spazio. Tuttavia, ha un grande pregio, sconosciuto ai più: delle docce utilizzabili da qualunque passeggero. Non vedo indicazioni da nessuna parte, ma ricordo di aver letto di questo servizio sul sito dell’aeroporto. Chiedo dunque a un banco informazioni e mi viene detto che si trovano subito dopo il gate 35.
Trovate! Siamo ai livelli di una doccia da piscina comunale e il set con bagnoschiuma, shampoo, asciugamano (sottile come un velo) e ciabattine a dieci euro è un furto, ma accidenti se ne vale la pena.
Ora sto decisamente meglio e posso girare con più calma il terminal. Avevo parlato di un viavai di gente, ma c’è anche chi si mette comodo.
Il nostro A380 si sta preparando per il prossimo volo, suppongo per LHR.
AZ ad AUH opera dal Terminal 1. Nello specifico, il nostro volo è di nuovo ai remoti, in un’area imbarchi dimenticata da Dio. C’è anche un volo Air Berlin, mi sembra per Berlino Tegel.
AUH-MXP
AZ857
08:55 LT – 12:55 LT (on time)
Boeing 777-243ER | LN: 426 | First flight: 18/12/2002
EI-ISB “Porto Rotondo”
Seat 30C
L’aereo è parcheggiato a Dubai per mancanza di slot, o almeno così sembra, dato il lunghissimo percorso in bus.
Fauna locale e semi-locale.
Che sorpresa, di nuovo ISB!
Dai, almeno so cosa aspettarmi a bordo, ovvero i soliti interni in disperato bisogno di una rinfrescata.
A fronte di una cabina che non ha bisogno di ulteriori commenti, però, fa bella mostra di sé un altro equipaggio coi fiocchi. Ne riconosco alcuni che erano in servizio anche sul primo volo di questo itinerario, tre settimane fa. Subito dietro ai nostri posti, alla porta L3, ci saluta con un sorriso un’a/v molto sorridente che assomiglia un po’ alla Fracci e che chiamerò P., per non usare il suo nome completo. Si intrattiene con noi durante l’imbarco, tranne ovviamente nei momenti in cui passano altri passeggeri, e sarà molto premurosa durante tutto il volo.
Boarding completed: P. ci fa cenno di spostarci subito sul blocco centrale della fila 29, interamente vuoto. Anche stavolta si viaggerà comodi.
Non so se sia questione di fortuna o di un effettivo miglioramento nel prodotto Alitalia. Il punto è che la permanenza a bordo è stata molto piacevole, dal decollo fino all’atterraggio. Il motivo principale è l’equipaggio: come all’andata, l’affiatamento è evidente. Apprezzo anche l’umorismo garbato, mai sguaiato né maleducato, di alcuni aa/vv.
Un leggero inconveniente, in realtà ininfluente, è la mancanza dei pasti speciali, che non sembrano essere stati registrati per questo volo: gli aa/vv si scusano e ci offrono di mettere insieme qualcosa ad hoc per sostituire il pasto senza glutine, ma non c’è problema, mangiamo quello che c’è. Questo è il rancio:
Per passare il tempo guardo un film e sonnecchio un po’ fino al Mar Nero.
Poi arriva P., mi sorride e, sottovoce, mi chiede: “Gradisce un espresso? In via eccezionale, sa…”. Penso che il mio sorriso da ebete sia bastato per farle capire la mia risposta.
Me lo porta con tanto di cioccolatino e coperto da un tovagliolino di carta per non farsi vedere.
Anche alle due compagne di viaggio viene rivolta la stessa domanda. Suppongo che sia un modo per farsi perdonare il mancato caricamento dei pasti speciali: in ogni caso, è un piccolo gesto che fa la differenza e mi rimarrà impresso nella memoria. Brava Alitalia.
Per il resto il volo è tranquillo. Lo snack prima dell’arrivo non è niente di che.
A Milano c’è bel tempo e tocchiamo dolcemente. Ci congediamo dall’equipaggio e recuperiamo i bagagli abbastanza in fretta.
Bentornati a casa, o quasi! Per me e la consorte manca ancora l’ultima tratta fino a Berlino, ma prima ci fermiamo vicino a casa dei suoi, al Castello di San Gaudenzio: un ottimo modo per concludere una vacanza.
Ecco, adesso è veramente finita.
Inutile chiedersi se ne sia valsa la pensa: la risposta è chiaramente sì. La Nuova Zelanda si conferma uno dei miei luoghi preferiti, per tutti i motivi ampiamente illustrati, e non vedo l’ora di tornarci.
Dal punto di vista aviatorio do un ottimo voto ad Alitalia nonostante gli interni datati del 777 e la gestione non ottimale della sosta imprevista a DWC: il giudizio positivo è ascrivibile soprattutto alla professionalità degli assistenti di volo, che non ho mancato di segnalare.
A completare il mio giudizio, una piccola statistica sul servizio clienti Alitalia: ho segnalato anche la faccenda della nebbia ad AUH e mi hanno richiamato dopo nemmeno tre giorni (di sabato mattina) per scusarsi. Alla telefonata è seguita una mail un po’ strappalacrime con ulteriori scuse. Mai visto nulla di simile in passato.
Etihad si è confermata essere quello che mi aspettavo: un buon prodotto, senz’altro curato, ma pur sempre un prodotto di massa. AUH per i transiti non è il peggio che esista, ma allo stato attuale (nel 2016, nda) non è nemmeno il massimo. Sinceramente non so se ci volerei ancora, anche tenendo in conto la futura apertura del nuovo terminal.
Virgin Australia mi sembra una buona compagnia, anche se non ho visto abbastanza per poter formulare un giudizio più completo. Air New Zealand, dal canto suo, resta sempre di ottimo livello.
Hei konā mai!