Mercoledì 15 Marzo è una data memorabile per la storia dell’aviazione asiatica: per la prima volta dal 2008 (e per la terza volta dalla fondazione nel 1946), Cathay Pacific ha annunciato la chiusura del precedente anno finanziario con una perdita di 74 milioni di dollari.
Il risultato, che alle orecchie italiane, abituate ai drammi annuali di Alitalia, può sembrare tutto sommato limitata, va posto nel contesto in cui l’industria, nel suo complesso, ha guadagnato quasi 30 miliardi di dollari, con un prezzo del petrolio in caduta costante per quasi tutto il corso del 2016.
Come nel 2008, vi sono varie cause da ascrivere al risultato negativo raggiunto dalla compagnia; la principale delle quali rimane, su un piano oggettivo, l’errore del management nella gestione del fuel hedging.
Il CEO Ivan Chu si è dimesso ieri, a parziale ammissione di colpa. Stando all’annual report 2016, il costo del carburante, al netto dell’hedging, era diminuito del 20% rispetto all’anno precente, mettendo ancora più in luce gli errori di valutazione sul lato finanziario, che negli ultimi tre anni ammontano a circa 1.1 miliardi di dollari di perdite sul solo fuel hedging.
Una delle prime azioni del nuovo CEO Ruper Hogg, promosso dal ruolo di COO, è stata proprio la riduzione della copertura dell’hedging da quattro a due anni.
Il risultato della compagnia non può però essere solamente spiegato con gli errori sulla copertura del costo del carburante. Vi sono altre cause che gli analisti hanno ben evidenziato.
Il primo grosso problema che Cathay Pacific deve affrontare è la competizione. Hong Kong è schiacciata, geograficamente, a ovest dalle ME3 – Emirates, Qatar e Etihad; mentre a nord vi sono le aspiranti nuove regine dell’aviazione – Air China, China Eastern, China Southern.
Cathay Pacific ha goduto per anni della possibilità di instradare traffico verso le chiuse città cinesi; la continua apertura di rotte, non solo dalle principali metropoli come Pechino, Shanghai e Canton, ma anche da città relativamente secondarie come Wuhan, Xian o Chongqing ha visto via via ridurre il numero di transiti che l’azienda del gruppo Swire poteva far passare da HKG.
Gli accordi di partecipazione azionaria tra le big three cinesi e le compagnie americane (non ultimo, l’acquisizione del 20% di China Southern da parte di American Airlines) sta iniziando a mettere seriamente sotto pressione anche il mercato transpacifico.
Va detto che lo stesso mercato cinese è sempre stato considerato relativamente di serie B da parte de vettore, che ha sempre preferito far volare le rotte verso la Mainland China alla controllata Cathay Dragon – questo ha sempre penalizzato il brand su un mercato da 1,2 miliardi di potenziali utenti.
È interessante, in questo contesto, che Air China e Cathay Pacific posseggano reciprocamente il 10% delle azioni ma che abbiano accordi assolutamente limitati a porre il codice di volo su pochissime destinazioni interne in Cina. Contemporaneamente, è stato recentemente firmato un accordo di collaborazione con Lufthansa che suona piuttosto come un avvertimento all’altro grande vettore asiatico, Singapore Airlines, storico partner della compagnia tedesca e fondatore dell’alleanza Star Alliance.
Le compagnie del medio oriente hanno fatto il resto. Se fino alla metà del 2000 neppure Emirates rappresentava un grosso rischio, la scelta del “going big”, sia in termini di rotte, che in termini di flotta, e il sostegno massiccio da parte dei governi dei rispettivi paesi, hanno permesso che una parte consistente del traffico tra Europa e Asia venisse instradato via Dubai o Doha anziché via Hong Kong (o Singapore, che, pur ancora presentando buoni risultati finanziari, sta iniziando a soffrire da un accerchiamento simile).
La chiusura della Kangaroo route via HKG da parte di Qantas, e lo spostamento su Dubai con l’alleanza siglata tra la compagnia australiana e Emirates, hanno messo in ulteriore difficoltà Cathay Pacific. Se tradizionalmente passare per Hong Kong sulla via per l’Australia era considerato normale e scontato, oggigiorno lo è sempre meno.
Se questo non bastasse, la compagnia di Hong Kong vede l’ingresso sul suo stesso mercato, che evidentemente fa molta gola, sia demograficamente che economicamente, di una nutrita serie di compagnie low-cost.
HKG è base della compagnia low-cost HK Express, che è in rapida espansione sia per numero di destinazioni che per flotta: ai 21 Airbus attualmente presenti se ne aggiungeranno altri 18 nei prossimi mesi. Il mercato low-cost da Hong Kong è ancora relativamente poco esplorato e ha ampi margini di incremento sulla market-share totale.
Basti pensare che le principali compagnia low-cost asiatiche hanno una incidenza ancora piuttosto bassa sul mercato totale: VietJet Air, ad esempio, vola unicamente su Ho Chi Minh City pur potendo contare su altre due basi (Hanoi e Da Nang).
La pressione che queste compagnie pongono sugli yield dei vettori full-fare come Cathay Pacific non è trascurabile, tanto più che il settore medio dei voli asiatici è notevolmente più lungo di quello dei vettori europei.
Cathay Pacific ha una formidabile arma in mano, che è Cathay Dragon, tuttavia al momento è un’arma spuntata da una flotta relativamente vecchia (14.1 anni l’età media, alcuni dei 330 sono tra i primi serial costruiti e hanno più di 24 anni) e da una limitata estensione del network che spesso si sovrappone a quello della casa madre.
In conclusione, la sfida che Cathay Pacific si trova a dover affrontare è minata da una parte dalla concorrenza interna dei vettori cinesi e dei due aeroporti principali del Guangdong (Guangzhou e Shenzhen, dove la presenza di China Southern è piuttosto significativa) e dover competere per i passeggeri che ora preferiscono volare direttamente dagli aeroporti regionali cinesi alle loro destinazioni in Europa e nord America; dall’altro, dalla competizione dei tre vettori globali basati nel Golfo Persico che hanno diluito gli yield e imposto una nuova geografia dei transiti a livello mondiale. Infine, la pressione che i vettori low-cost esercitano sulle rotte da e per Hong Kong aumenterà notevolmente nei prossimi anni, vista l’incidenza ancora relativamente bassa di questo tipo di traffico nel computo totale.