From Tiscali, with love
[L’analisi] Attenti al bacio della morte al tacchino Alitalia. Usare i soldi dei piccoli risparmiatori può far esplodere tutto
Fallita tre volte, ha bruciato 7,7 miliardi di soldi pubblici. Sull’onda del crac, l’azienda fu divisa in una bad company (con i settori senza speranza) e una good company (le parti migliori, in teoria capaci di volare, libere della zavorra della badcompany). Una tecnica standard nei salvataggi. Ma, qui, è andata a fondo anche la good company. Un ulteriore tentativo sarebbe accanimento terapeutico. E utilizzare i soldi di Cassa Depositi e Prestiti può essere molto pericoloso
di Maurizio Ricci, editorialista
Il tacchino, come è noto, non vola. E neanche Alitalia. Non nel senso che i suoi aerei non sono capaci di decollare, ma come azienda: finanziariamente è da sempre – ormai si può dire strutturalmente, come il tacchino – rasoterra. Anche questa è, quanto le incapacità aeree del grosso pennuto, una cosa da tempo nota a tutti. Lo sanno certamente anche gli esponenti del nuovo governo. Eppure segnalano, con grande disinvoltura, l’interesse a mantenere in Italia la proprietà e il controllo della compagnia. Ciò che significa tre cose, nessuna delle quali è credibile. La prima è che c’è una compagnia straniera disposta a investire (pesantemente, perché servono molti soldi) in Alitalia, pur avendone solo il 49 per cento e, dunque, dovendo adeguarsi ai desideri di chi, effettivamente, la controlla. La seconda è che esistono investitori privati italiani pronti a giocarsi l’osso del collo nei cieli. Oppure – terza ipotesi – lo spensierato rischiatutto è lo Stato italiano, in qualche forma ancora da escogitare.
Un buco senza fondo
Non si tratta dei rischi di inoltrarsi in un terreno inesplorato. Del disastro Alitalia, infatti, sappiamo già tutto, nel dettaglio. A far data al maggio 2017 (l’ultimo crac) la compagnia di bandiera ha inghiottito, negli anni, soldi pubblici per 7,7 miliardi di euro, ai valori attuali. Ettore Livini, su Repubblica, l’ha definita “la sanguisuga volante”, capace di perdere 400 milioni di euro all’anno. Sposarla, con l’obiettivo di farla volare, è l’equivalente del bacio della morte. Infatti, dal 2008 ad oggi, è già fallita tre volte. E neanche fallimenti qualunque. Nel 2009, sull’onda del crac, l’azienda fu divisa in una bad company (con i settori senza speranza) e una good company (le parti migliori, in teoria capaci di volare, libere della zavorra della badcompany). Una tecnica standard nei salvataggi. Ma, qui, è andata a fondo anche la good company. Un ulteriore tentativo appare come un caso limite di accanimento terapeutico.
Perdita di 10 mila euro a volo
Nei primi tre mesi del 2018, Alitalia, pur gestendo 4 mila voli a settimana, ha perso 117 milioni di euro. Volendo fare una media maligna, ogni volta che un aereo Alitalia si leva in volo, la compagna perde quasi 10 mila euro. Nel 2017 perdeva quasi il doppio, ma non è il caso di festeggiare: nell’ultimo anno, dopo il fallimento, l’hanno gestita i commissari che, per loro natura, possono solo galleggiare, senza uno straccio di investimento. E, invece, per rilanciare Alitalia, servono investimenti pesanti: 3 miliardi per nuovi aerei, 1 per rinnovare la licenza, un altro miliardo e mezzo fra perdite e rimborso prestiti (ci sono 900 milioni di prestito di Stato da restituire). Secondo questa stima, il conto totale di un rilancio Alitalia è di 5,5 miliardi, da sborsare anche in fretta. Se si trova qualche straniero pronto a prendersi il 49 per cento, sono circa 3 miliardi di soldi nazionali.
Il mito della compagnia di bandiera
Come già Berlusconi nel 2008, l’elisir incantatore che spinge il nuovo governo a covare un ennesimo salvataggio è il mito della compagnia di bandiera. Una questione di orgoglio nazionale e poco altro. Serve, infatti, una compagnia di bandiera? Il Belgio è uscito senza danni apparenti dalla scomparsa della Sabena e in Svizzera non sembrano crucciarsi gran che per aver rinunciato a Swiss. Con l’Unione europea e la liberalizzazione dei cieli non sembra che ci sia un’urgenza nazionale. Certo, la terza economia d’Europa e una delle maggiori mete turistiche mondiali dovrebbe avere il peso specifico per una compagnia nazionale. Ma questo treno è stato perso, per incompetenza, incapacità gestionale, inaffidabilità del servizio negli scorsi decenni, quando la ricca clientela d’affari del Nord è trasmigrata in massa su Lufthansa piuttosto che Air France. L’ultima ridotta della compagnia di bandiera è caduta non sulle rotte internazionali, ma quando l’alta velocità ha svuotato la rendita della tratta Roma Fiumicino-Milano Linate.
Il problema delle rotte
Una compagnia di bandiera ha senso se le sue rotte accompagnano gli interessi nazionali, aprendo scali che strizzano l’occhio all’espansione commerciale. Tipo Milano-Shangai o Roma-San Paolo senza scalo. E, contemporaneamente, intercettano i massicci flussi turistici diretti vero il Belpaese. Ma lo straniero che si caricasse il 49 per cento di Alitalia avrà interesse a integrare le rotte nel suo sistema: vuol dire andare a Shangai passando per Parigi o a Rio passando per Monaco. Esattamente come negli anni appena trascorsi, quando la compagnia di bandiera c’era, ma per finta. Bisogna partire dalla situazione di oggi. Alitalia trasporta solo un quarto del traffico fra Italia e America. Rispetto al 2005, i suoi passeggeri sono scesi da 30 a 22 milioni l’anno. Lufthansa li ha accresciuti da 50 a 130, Ryanair da 33 a 128 milioni. Nel 2005, insomma, eravamo al livello degli altri, oggi siamo lontanissimi. Riprendersi quei passeggeri è molto difficile e, soprattutto, costoso. Richiede altro che 5 miliardi di euro: occorre una politica superaggressiva in termini di tariffe e di voli. Una scommessa molto rischiosa.
Chi paga il conto?
Finora, nessun ministro ha messo i piedi nel piatto, specificando chi dovrebbe farsi carico di quel 51 per cento da lasciare italiano (e quali condizioni offrire al partner straniero che si prendesse il 49). Una nazionalizzazione che porti dentro il bilancio statale, già affondato dai debiti, anche i debiti presenti e futuri di Alitalia non sembrerebbe praticabile. Un investitore italiano (le grandi banche hanno già i loro problemi, i “capitani coraggiosi” sono già stati provati senza successo) non si vede. Per ora, comunque, sarebbe inutile una caccia alle streghe. Una tentazione, tuttavia, andrebbe fermata subito. E’ evidente, in questo, come in governi precedenti, la tendenza ad utilizzare la Cassa Depositi e Prestiti (per il cui vertice si è appena conclusa una battaglia inaspettatamente lunga e faticosa) come strumento principe di una politica industriale teleguidata dai partiti. Non è il suo mestiere. La Cdp amministra 350 miliardi di risparmi, raccolti attraverso conti e libretti postali. Le sue sortite nella grande finanza, sia pur limitate a piccole quote, non sono particolarmente baciate dalla fortuna: su Tim e Saipem, ad esempio, Cdp è in perdita. Prima di lanciarla in grandi avventure, bisognerebbe ricordare che i soldi in questione sono della parte più umile e meno sofisticata dei risparmiatori italiani. E guardarsi anche da contraccolpi a Bruxelles. Oggi, Cdp (come organismi simili in Francia e in Germania) non fa parte del perimetro pubblico e i suoi debiti non gravano sul debito statale. Tuttavia, come ha ricordato recentemente Giulio Tremonti, il ministro che, dieci anni fa, si guadagnò a Bruxelles questa esclusione dal debito pubblico, non tutti i partner erano d’accordo. Un’attività troppo esposta e vivace di Cdp in Italia potrebbe riaccendere vecchie diffidenze e far esplodere i conti pubblici.