I.I L'eroica: continua
La partenza, stando a Strava, avviene il giorno dopo alla precisa ora delle 6.35. Dovevano essere le 6.30 ma non ho chiuso a sufficienza i dadi del manubrio e quindi devo dargli un altro giro di brugola e, già che ci siamo, vuoi non mettere su un altro goccio di lubrificante sulla catena?
Sono teso, non posso fare a meno di ammetterlo. Centoquarantatrè chilometri son tanti, mi dico. Ma l’unico modo di mangiare l’elefante è un morso alla volta, e lo stesso vale per giri in bici autoinflitti. Parto, tasche piene di barrette, acqua, chewables alla caffeina e quant’altro.
Seguo la traccia di Komoot attraverso una serie di villette e, poco dopo, sono fuori, nella campagna. Siena torreggia appollaiata su un crinale; di sotto, un mare di nebbia nasconde le colline circostanti. Pedalo a ritmo lento, riempiendomi gli occhi di questo panorama incredibile. E’ strano: non sono mai stato qui ma allo stesso modo mi sento a casa.
La strada è una provinciale, asfaltata e senza traffico. Poi, ad un certo punto, ecco un incrocio. Il cartello marrone, quello dei luoghi di interesse turistico, ha solo una parola in corsivo:
L’Eroica. Giro, e tutto cambia. Sparisce il catrame; ecco il calcare, il pietrisco, la polvere bianca. La mia bici percepisce il cambio di terreno,
sente la differenza, e mi sembra di volare. L’aria profuma di biancospino, c’è un venticello terso e le colline sono verdi come quelle d’Irlanda, solo meglio. Inizio a sorridere.
La strada non è una costruzione, è una linea dipinta col pennello su queste colline meravigliose. Salite improvvise, discese roboanti, falsopiani, curve veloci e pianori da cinema: c’è tutto. Intorno scorrono casolari millenari, oliveti, ciliegi in fiore, querce; sono da solo, e non potrei esser più contento.
E’ solo verso il chilometro 50 che mi rendo conto di una nuova funzione dell’app di Komoot. Lo schermo del mio iPhone 8 fa fatica a rivelare il profilo altimetrico dell’intera tratta, ma anche a questo livello macroscopico capisco che sto per avvicinarmi alla prima, vera, salita della tappa. E, infatti, appare un cartello ad indicare tornanti per i prossimi km e, soprattutto, una pendenza massima del 15%.
Scalo i rapporti fino a quello più comodo. Quando hai ancora 100 km da fare, e la tua esperienza in materia di tornanti è limitata a Box Hill (numero dei suddetti: 2), allora è meglio andare con umiltà. Testa bassa e serenità, mi dico; più Romano Prodi e meno Vingegaard sul Col de la Loze. Proseguo con calma da sufi e velocità da pollo zoppo ma, alla fine, emergo di fronte a un resort di quelli che costano 4 cifre a notte senza sentirmi distrutto.
Montalcino segue a breve distanza e lì ritrovo l’asfalto. Sono quasi le dieci di mattina ed è giunto il momento di considerare la situazione-cibo. Ho mangiato un po’ di pane stantio, del salame e una mezza tavoletta di cioccolato Novi prodotta per l’ARMIR nel 1942, le uniche provvigioni disponibili all’autogrill ieri sera. In saccoccia ho barrette Clif e delle gommine dal gusto infame: meglio trovare un bar.
Per strada c’è solo un pensionato su un’Ape furgonato e decido di seguirlo. A quest’ora, mi dico, potrà soltanto essere diretto al bar più vicino e – detto fatto – eccolo che s’infila dritto e sicuro nel parcheggio del circolo. Lo seguo a ruota e, di lì a due minuti, sono rifornito di cappuccino, succo, brioche alla crema e bicchiere d’acqua frizzante.
L’Eroica, in questo formato, segue un percorso vagamente a forma di 8 e sono oramai a metà strada. Dopo Montalcino la strada inizia a piegare verso nord e il paesaggio cambia impercettibilmente: le colline sono meno pronunciate, i boschi più radi. La terra sembra meno feconda e incontro alcuni poderi abbandonati. Sto fischiettando da qualche minuto e, preso dal buonumore, faccio qualcosa che non mi capita mai, ossia metter su un po’ di musica con l’altoparlante del telefono. Da ora in poi, associerò la Toscana con l’epica
Blood and Sand / Milk And Endless Waters degli All Them Witches.
Di tanto in tanto capita che la strada bianchi incroci una grigia. In quei momenti, invero brevi, la dicotomia tra il mondo dei pedali e quello della combustione interna mi appare in tutta la sua forza. Di qui lentezza, il rotolare della ghiaia, il rumore del mio respiro; di lì il
wrrzzzz dei turbo, il rombo degli autoarticolati, la velocità e il puzzo degli scarichi. Qui mi capita di vedere un fagiano attraversare la strada; lì, invece, giace la carcassa spiaccicata di un istrice.
L’asfalto è solo una parentesi, un breve tratto da percorrere a chiappe strette e collo ritratto nelle spalle, a mò di testuggine, prima di ritornare nell’abbraccio degli sterrati della provincia di Siena. E, infatti, ecco che dopo poco sono di nuovo alle prese con nuove salite sulla via per Asciano. L’ora di pranzo è passata da un po’, Asciano sembra distare 20 km da almeno 30, e davanti a me c’è - per la prima volta – un altro ciclista.
Erik è, ovviamente, olandese. A mia esperienza sono solo loro – e i loro cugini fiamminghi – a viaggiare in bicicletta. Se il bikepacking fosse una religione i Paesi Bassi sarebbero una teocrazia dedicata al culto del velocipite e della borsa da bici. Il nostro, approfittando di un cambio di lavoro, ha lasciato moglie e figlie all’Aia, ha caricato la Ribble e le bisacce su un 737 di KLM per Pisa e poi ha iniziato a pedalare. Ora è diretto verso Firenze, ritmo lento da profeta, occhiali rotondi con montatura tartaruga e, sotto il caschetto, una zazzera sale-pepe incolta. Dategli una giacca e cravatta e sembrebbe un delegato al Congresso di Solvay assieme a Bohr.
Il buon Erik è a corto d’acqua e divido con lui la mia ultima borraccia. Proseguiamo a passo tranquillo fino ad Asciano, dove la fratellanza ciclistica ci consiglia un esercizio a metà tra l’alimentari, il ferramenta e il baretto. Il menu include qualsiasi tipo di panino prosciutto e formaggio a patto di voler il pecorino – pardon,
pehorino – caffè e bottiglie di acqua da due litri. Chiedo di pagare con la carta, scusandomi con la signora al banco; la sua risposta è l’ennesima ragione per amare la Toscana: “Non si preoccupi, l’unico
rompihoglioni è Salvini”.
La confraternita italo-olandese si interrompe fuori Asciano, precisamente al camposanto. Erik tira dritto, io prendo a destra, su per una riva ripiderrima. Mancano oramai 30 km e la sosta al baretto mi ha ritemprato: le gambe sono di nuovo cariche di energia, la mente è lucida, niente fa male. Nota per il futuro: cotto pecorino e pane integrale battono qualsiasi energy chewable.
Il sole sta calando, ora, e la luce è così morbida che sembra di essere stati pucciati dentro a un vasetto di miele. Mi passa una comitiva in quad, turisti con cuffie da doccia sotto ai caschi per proteggere le acconciature; poi un paio di enduristi. C’è anche il momento per quello che un amico definisce il “
Komoot cock-up”, ossia quella deviazione che, sullo schermo, sembra perfetta ma che è tutto tranne che. Finisco in un tratturo tra i campi, fango indurito dalle ruote di un trattore; a seguire guado di un rivo, breve hike-a-bike nel fango, inseguimento da parte di un cane da pastore e, alla fine, ritorno sulla strada maestra.
Mancano 10 chilometri, ormai, e se mi metto di buzzo buono posso arrivare prima che chiuda la Coop. La mia mente è agitata da sogni di gloria: una parata in stile Pyongyang di bottiglie di Menabrea da 66, focaccine rotonde e fette quadrate di pizza, una fiumana di glutine e carboidrati. Ma l’Eroica si chiama così per un motivo, e il suo slogan è
La bellezza della fatica e il gusto dell’impresa per un motivo.
Appaiono i cipressi, in file parallele. Alberi da cimitero, almeno dalle mie parti. Poi c’è il ciclista, che scende in direzione opposta alla mia, che mi grida incoraggiamenti. Poi due tizi in moto che fanno lo stesso. Non mi stanno perculando, sanno cosa c’è tra me e Siena, tra me e la Coop.
Il cartello dice solo 14%, ma basta e avanza. Stavolta non c’è tattica, non c’è Romano Prodi a suggerire prudenza. L’arrivo è vicino, la volata non è solo necessaria: è d’obbligo. Spingo in piedi sui pedali, pestando forte in barba ai muscoli che s’induriscono e all’acido lattico. Ansimando come un carlino emergo in cima al poggio e vedo un cartello: Monte Sante Marie. Una delle salite più epiche del Gran Fondo Strade Bianche UCI, piazzato strategicamente alla fine del mio percorso tipo “mostro finale” in Duke Nukem 3D.
Il resto, come si dice, è storia. Arrivo a Siena dopo quasi nove ore di pedalata, a una media di 16,6 km/h per percorrere i fatidici 143 km e 2961 metri di dislivello. Il vialetto d’accesso dell’hotel è vuoto, una locomotiva delle FS scalda il diesel sotto di me; non c’è nessuno, ma sollevo lo stesso la mia bici in aria per celebrare di fronte a una platea di zero persone. Non ho vinto nulla, non ho rotto nessun record, a nessuno gliene frega niente... ma a me si. E la Coop è ancora aperta.