Torniamo a parlare di Aeroitalia per cortesia
Chiedo scusa per l'OT, ma a questo punto ti chiederei gentilmente di splittare il
thread così da poter continuare la discussione.
La prossima volta che prenderai un volo di una compagnia qualsiasi, low-cost o meno, potresti trovarti su un aeromobile operato da una compagnia ACMI con sede in un Paese X. Questa ipotetica compagnia non ha dipendenti, o almeno ne ha pochissimi e solo "negli uffici". La forza lavoro è composta da personale che proviene da un'agenzia basata in un paradiso fiscale. Il dipendente con detta agenzia non ha nessun rapporto di dipendenza ma solo di collaborazione. Detta agenzia paga a fine mese il dipendente un lordo in base a quanto pattuito dal "contratto" registrato alle Isole Cayman dove ha, poniamo, sede l'agenzia. Il contratto non prevede ovviamente ferie, malattie pagate o altro. Puro cottimo. Pay as you go, come i cellulari. Il pilota (o a/v, o qualsiasi altra figura) vive e risiede con la famiglia in un Paese Europeo, poniamo l'Italia. Ad un certo punto comincia a pensare "ma io le tasse come e dove le pago? E i contributi?" e lì si apre il vaso di Pandora. Commercialisti, interpelli all'AdE, ognuno dice una cosa diversa, è illegale, no è legale ma devi aprire una partita IVA, non puoi fare il pilota a partita IVA, forse si può fare ma bisogna trovare il modo, ma come è possibile fare la partita IVA con un lavoro che è per forza di cose soggetto a rapporto di subordinazione con un Operatore? Nel dubbio vai con le aliquote più alte di Irpef e pagati i contributi per conto tuo per stare "tranquillo". Tutto ciò avviene serenamente in Europa, in ambito EASA.
Questo scenario è capitato a me quando mi hanno proposto un contratto molto interessante per fare lungo raggio e quanto sopra è stato il risultato della mia "due diligence". Ovviamente ho lasciato perdere. Ma ti pare normale?
Ok, grazie per la spiegazione, ma il mio dubbio è su come questa modalità lavorativa si ponga in violazione delle norme vigenti.
Perché – ovviamente parlo dell'Italia – mi sembra che manchi una legislazione inequivocabile che sostenga la necessità di inquadrare un rapporto di lavoro esclusivo e continuato come lavoro subordinato piuttosto che come collaborazione autonoma a Partita IVA.
La legge Biagi (D.Lgs. 276/2003) ha annoverato per un certo periodo di tempo (dal 2012 al 2015) l'articolo 69-
bis che prevedeva una serie di presunzioni volte a stanare le "false Partite IVA", ovvero a riqualificare la prestazione lavorativa autonoma come rapporto di collaborazione continuata e collaborativa.
Queste presunzioni si rifacevano alla durata (l'aver lavorato complessivamente per più di 8 mesi negli ultimi 2 anni) e all'imputazione dei ricavi del prestatore di lavoro (se fatturi più dell'80% a soggetti riconducibili al medesimo centro di interessi).
In presenza di questi elementi oggettivi, spettava poi al committente/datore di lavoro provare il contrario per uscirsene.
Il Jobs Act, nella sua azione di riforma del mondo del lavoro, non ha adottato una disposizione simile a questa ed oggi l'articolo non è più in vigore (come la maggior parte della legge citata).
Quindi, ad oggi, chiedo: esiste una normativa che renda i naviganti a Partita IVA "illegali"?
Perché altrimenti è inutile lamentarsi.
Sul mercato del lavoro (così come al mercato ortofrutticolo) trovi prodotti più o meno buoni. Un contratto di lavoro subordinato ti dà più tutele rispetto ad uno autonomo, non c'è dubbio (e tu stesso sei stato libero di rifiutare la proposta di lungo raggio a Partita IVA), ma non mi sembra si possa puntare il dito dicendo "quello è illegale".
Quello che io o te pensiamo sia normale o meno, non ha importanza.
La legge cosa prevede?