[OT, Parte II – Bukhara]
Scusate il ritardo, purtroppo (a differenza di alcuni, anzi di uno, anzi di Dancrane) ogni tanto, ahime’, mi tocca lavorare. Comunque, eccoci qui con la seconda di tre parti sull’OT. Parliamo di Bukhara.
A differenza dei fan di Vecchioni, il vero obiettivo per questo viaggio, per me, era Bukhara. Bukhara, la citta’ santa, Bukhara la citta’ in cui la luce sale da terra anziche’ dal cielo, Bukhara la dotta, Bukhara la citta’ proibita. Onestamente non vedevo l’ora di arrivarci.
L’arrivo e’ un anti-climax, generosamente condotti dal treno veloce Talgo, soprannominato FrecciUzbeca. In tutta onesta’ ho sempre trovato i treni veloci spagnoli abbastanza ridicoli; questo qui ha otto carrozze grosse, ognuna, come meta’ di una carrozza di un treno ‘vero’. Vabbe’, dettagli.
Foto Dancrane
Foto Dancrane
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Foto Dancrane
Come a Samarcanda usiamo il barbatrucco di andare in biglietteria per prenotare il biglietto del treno del ritorno e li, terremoto e tragggeddia. Il FrecciUzbeca e’ pieno (e vorrei ben vedere, avra’ 15 posti ‘sto brucomela). Rimane solo il treno Sharq, also known as “L’accelerato del Syr Darya”. Sette ore per tornare a Tashkent. Sconfitti e attorniati da tassinari piu’ o meno abusivi prenotiamo due posti
”Ma che sia almeno la bisnis!” interloquisce Dancrane che ha, giustamente, degli standard.
Il giro in taxi e’ di cattivo auspicio. Becchiamo un tassinaro acefalo – va anche detto che a dargli le indicazioni sono io, quindi possiamo benissimo parlare di concorso di colpa. L’hotel e’ in Naqshbandi street, stando alla mia stampata; lui ovviamente e’ l’unico di tre persone al mondo a non sapere cosa vuol dire ‘street’ e lesto lesto ci porta al mausoleo del signor Naqshbandi. Seguono copiosi
”kitammuort” e raccomandazioni reciproche di usufruire dei servigi delle rispettive madri, ma alla fine siamo all’hotel. Amulet Hotel, situata in una ex madrassa, te’ come se piovesse e birra a prezzi politici. TW843 lo troverebbe ‘na stamberga, per me è una reggia.
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Comunque, Bukhara.
Parlare della storia della citta’ richiederebbe pagine e pagine, probabilmente annoierebbe tutti tranne me, e quindi non lo faro’; mi limitero’ a dare qualche aneddoto quando serve. Comunque, la differenza principale sta nel fatto che, a differenza di Samarcanda, il centro è rimasto praticamente come ai tempi e la ricostruzione russa è stata abbastanza dignitosa. Come per Samarcanda, vi porto a fare un giro, anche se a spezzoni.
A nord della nostra zona sta uno dei landmark più importanti di Bukhara, talmente famoso da essersi meritato la copertina della Lonely Planet per l’Asia Centrale (estiqatsi, direbbero gli etruschi). Chor Minor, Quattro minareti – va detto, però, che la struttura non fu mai una moschea, le torri non furono mai minareti; piuttosto, si trattava della
darvazakhana, o portineria, di una madrasa costruita da un mercante turkmeno. La madrasa è sparita nei lunghi anni di declino e oblio di Bukhara, Chor Minor no.
Usciamo mentre fervono i lavori
e il traffico
All’improvviso, LEI.
Appena fuori dalle tre vie principale, tutte ammirabilmente pedonalizzate (voglio dire, Londra deve ancora arrivarci), le strade sono così. Ci avventureremo li dentro tra non molto.
Seguo le mie mappe disegnate a mano, perculato senza pietà da Dancrane, e ovviamente andiamo lunghi. Un monsù in bicicletta corregge l’errore, ed eccoci qui.
I più attenti noteranno una strana scultura in cima a uno dei quattro pseudominareti. Impieghiamo le lunghe lenti del prode Dancrane, và:
Bukhara sorgeva vicino, o proprio dentro a seconda di chi chiedete, una zona di acquitrini, paludosa, in cui le cicogne sguazzavano allegramente. Purtroppo a sguazzarci erano anche malaria e altre amenità; i sovietici, che comunque non brillavano per attenzione all’ambiente – vedi Aral – bonificarono il tutto, causando la sparizione delle cicogne. Nelle costruzioni più vecchie e non restaurate si vedranno, ancora oggi, i vecchi nidi.
Nel frattempo il nostro perlustra ricordi del suo passato prossimo (se vi racconta della Lunga Marcia, scappate):
Torniamo indietro, e andiamo verso il centro. Lungo la via, si passano un paio di bazaar, tutti costruiti con almeno 4 ingressi per favorire la circolazione dell’aria e oramai interamente dedicati al turismo. Il paragone con Isfahan è, purtroppo, impari.
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Passiamo nuovamente attraverso viuzze…
finché un delicato profumo di panetteria non riempie i vicoli (di solito o è metano, o caprone, o tutt’e due). Io spinto dalla nostalgia – a Londra le panetterie sono più rare di un povero a Belgravia – Dancrane dalla ben più volgare fame, seguiamo il profumo come due setter a caccia di tartufi. Il profumo proviene dalla bicicletta di costui:
…il quale, spaventato, vende subito la
lochescion dello spacciatore. Dancrane è come la Wermacht nel 1941: inarrestabile. Manco il tempo di dire
generale inverno che è praticamente dentro alla panetteria.
Il pane, come sempre a queste latitudini, è il
lepyoshka:
Di seguito il metodo di produzione. Il pane viene preparato, si punzona il centro con un apposito strumento, usabile anche come souvenir, e schiaffato senza troppe cerimonie in un forno che ricorda molto il
tandoori indiano. Al ritorno mi sono ovviamente divertito a perculare i colleghi del Subcontinente dicendo loro che il
tandoori ce l’avevano prima gl’uzbeki.
Foto Dancrane
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Foto Dancrane
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Arriviamo, infine, a Labi Hauz, se possibile il centro focale della zona turistica. Un
hauz è un serbatoio a cielo aperto, di solito di forma esagonale, in cui veniva stoccata l’acqua per l’uso cittadino dato che, d’estate, il rifornimento dai fiumi poteva venire a mancare per dei mesi. Il problema era che gli hauz erano anche usati come scovoli per i rifiuti, cosa che rendeva l’acqua ovviamente fetida. Tutti i visitatori stranieri che riuscirono ad entrare in Bukhara e ad uscirne vivi – Alexander Burnes, Lord Curzon, Vambéry e altri – menzionarono le condizioni igieniche orribili, e tutto il corollario di parassiti e altre cose belle che ne derivavano. L’arrivo dei russi portò un miglioramento, e ad oggi l’acqua del rubinetto è bevibile e ha anche un gusto migliore di quella di casa mia ad Acton.
Foto Dancrane
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Questo hauz, comunque, ha qualcosa di interessante. Tutto il compresso – due madrase, un convitto per dervisci erranti, il serbatoio stesso – è stato costruito sul terreno su cui, precedentemente, insisteva la casa di una vedova ebrea. Già. Perché qui, a Bukhara, esiste una comunità ebraica almeno, si dice, dai tempi dell’esilio di Babilonia. Oramai quasi estinta, essendo tutti i giovani e i ricchi emigrati in America o in Israele, ma comunque esistente. La zona a sud del hauz, infatti, è quella ebraica.
La signora della storia di prima, in cambio della sua casa, ottenne la costruzione di una sinagoga, dato che, prima di questa, gli ebrei coabitavano in una moschea, Magoki Attor; ci siamo muniti di una guida, Gulchekra – una specie di Loredana Bertè vestita da madama di Milano, veramente in gamba – e grazie alle sue entrature riusciamo, appunto, ad entrare. A guidarci è tale Isaac Gulamov, età 82, professione ex-geologo.
Foto Dancrane
Foto Dancrane
Foto Dancrane
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Il vecchio quartiere ebraico è oramai una sequela di hotel, tutti – grazie a Dio – dagli interni più o meno originali o comunque rispettosi degli standard del tempo. Eccone un esempio, prima di chiudere per questo post. L’OT, però, continua.
Foto Dancrane
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Foto Dancrane
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