Complice una lunga settimana di lavoro tra Polonia e Tunisia
, mi sono fermato per qualche giorno. Qui il continuo del racconto.
9 novembre
Uno dei problemi dell’Iraq è la temperatura delle camere d’albergo. Non esiste una via di mezzo, freddo o caldo, è comunque eccessivo ed insopportabile. L’unica alternativa per sopravvivere è aprire la finestra, la temperatura da queste parti è veramente piacevole a novembre. Così faccio, peccato che non avevo pensato di essere a cento metri dal minareto di una delle moschee più importanti del mondo. Alle 04:55, il salmodiare del muezzin mi sveglia prepotentemente. Le bestemmie in una città santa mi sembrano inappropriate, infilo la testa sotto al cuscino, il canto sembra essere sempre più forte. Chiudo la finestra, accendo l’aria, mi giro e mi rigiro sperando di riaddormentarmi, niente da fare, ormai sono sveglio. Hanno vinto il richiamo alla preghiera e il freddo artico del condizionatore. Alle 6 mi alzo.
La colazione inizia alle 7:30, non ho niente di meglio da fare che lavarmi, sistemare il mio zaino e salire all’undicesimo piano dell’albergo per fotografare questo
Mi fermo a guardare la città dall’alto, è presto ma solo per me. C’è già una babele di gente e cose, rumori, clacson, motorini e compagnia bella che mi ricordano quanto lo sviluppo e la tecnologia di noi occidentali siano solo condizioni e convenzioni che abbiamo dato alla nostra vita.
Prima della colazione passo alla reception, ho bisogno di capire come raggiungere Baghdad. Tappa breve e veloce. Se fossi al tour de France direi che oggi è la classica tappa di trasferimento, tutta piatta con solo volata all’arrivo. Niente sorprese, sempre se non c’è vento. Il vento che qui significa imprevisti, traffico, checkpoints, strade interrotte, manifestazioni in città e altre cose a cui non voglio nemmeno pensare.
Alla reception trovo Ambrogio dei Ferrero Rocher, ora capisco perché è scomparso dai nostri monitor, fa il portiere d’albergo. Gli spiego tutto, mi dice “No problem, ci pensa lui”. Mi chiede se va bene uno shared taxi e a che ora voglio andare. Gli dico di sì e che vorrei essere a Baghdad prima di pranzo. Ovviamente non esistono orari, la flessibilità è tutto. Chiama qualcuno, mi dice che un autobus passerà in albergo tra un’oretta e mi porterà a Baghdad. Si assicura che abbia i 5000 dinari che mi servono per pagare il biglietto. Sembra tutto pronto, non ho capito dove arriverò ma fa nulla, l’importante è arrivare a Baghdad, sorridendo tra me e me, penso a come sia facile organizzare le cose in Iraq, c’è sempre un “amico di mio cugino” che fa al caso mio. Non mi resta che fare colazione. Oggi menu a base di frutta, omelette, pane e frutta secca.
Partenza in perfetto orario, il Toyota Coaster anni 90 passa in albergo già bello pieno e si parte. Vengo accolto come se all’improvviso su un bus dell’ATM tra Quarto Oggiaro e Comasina salisse Diletta Leotta in minigonna e tacchi alti. Ovviamente qui la sorpresa non è per la bellezza ma per il mio fuoriluoghismo. Il mio viso è il più occidentale di tutti, non ho animali vivi con me, non ho il ciabattino De Fonseca doppia stringa, non ho nessuna t-shirt Atitas o Nikke. Ovviamente, 5 minuti e divento “ospite” della folla. Mi offrono una vaschetta di datteri freschi e una lattina di pepsi zero.
Nel frattempo, l’autista chiede indicazioni. Andiamo bene.
Il viaggio passa tranquillo. Poco più di novanta minuti e siamo alle porte della capitale. I checkpoint sono molto più veloci. All’ingresso di Baghdad ci fanno segno di passare senza nemmeno controllare i documenti. Il fatto di essere mischiato ad un po’ di Iraqeni facilita sicuramente.
Appena passato il confine con la provincia di Baghdad il pulmino fa una prima fermata. Scendono quasi tutti. Restiamo in pochi e chiedo all’autista se posso sedermi al suo fianco. Lui felice mi dice di sì, poi continua a parlarmi in arabo, io rispondo sempre di sì. Lui alza il pollice, io fotografo.
Intanto penso alla pianificazione odierna. Baghdad è bella grossa, ci sono parecchie cose da vedere ma non voglio correre da un posto all’altro, ho solo voglia di vivere la città e capire, vedere, incontrare la gente, immergermi nei mercati e perdermi. Mentre mi perdo nei miei pensieri vedo dal finestrino questo:
Qui ci voglio andare. È uno dei posti più iconici dell’Iraq e della capitale. Poi devo fare la foto del viaggio, quella per il profilo Facebook, non posso perderla. Indico all’autista se l’autobus passa là, lui a gesti mi risponde “ce lo facciam passare”. Per un attimo penso alla Principessa di Saint Tulipe ed il mitico Barnaba alla guida del suo 29 in Innamorato Pazzo. Prendo il mio zaino, saluto il resto della ciurma e dopo 10 minuti sono qui:
Nonostante sia ormai da qualche giorno in Iraq, ancora mi emoziono. Lo guardo da tante angolazioni diverse.
Questo posto è iconico, storico, emozionale ed emozionante. Qui si ricordano decine di migliaia di morti. Morti per le guerre, per i regimi, per il terrorismo, storie tristi di persone che in un modo o nell’altro hanno dato la loro vita perché credevano in qualcosa di diverso dalla fede dei loro dittatori. Si sono battuti per i loro valori, per le loro idee, contro Saddam, contro Al-Baghdadi e contro tutti quelli che negli anni hanno preso questo paese e l’hanno ridotto in macerie, povertà, tristezza.
È un immenso monumento ai caduti. Semplice nel design, possente nella realizzazione, affascinante per la sua storia e per quello che rappresenta. Sottoterra, sotto le due conchiglie turchesi, c’è un immenso salone pieno di nomi, foto e cimeli. In un’unica parola, impressionante. Mi perdo, per qualche minuto penso cosa sia stata la storia recente di questo paese.
Ritorno in superficie e dedico 20 minuti alla foto Instagram. Mi ricordo di quando giocavo a basket e stacco il volo. Il telecomando bluetooth cinese funziona alla grande!
È ora di andare. Non credo di avere molte opzioni se non un taxi. Un paio di minuti di attesa, Uber (qui Careem) e via, destinazione Al-Rasheed Road, il centro antico della città. Prendo una bella Nissan Primera anni 90 con volante in pelo d’alpaca e cruscotto con tappeto persiano. Mi chiedo come mai Audi e BMW non abbiano mai pensato di montarli di serie, potrebbero lanciare la serie “Elegance”.
Arrivo in Al-Rasheed Road. L’impatto è molto forte. Mi rendo conto di essere in una metropoli, gli spazi dilatati del monumento ai martiri improvvisamente si condensando in una massa di case, strade e gente. Tanta gente. Nonostante la decadenza e la distruzione, i palazzi, i balconi, le colonne, gli stucchi conservano intatta l’eleganza di un secolo fa, quando questo boulevard fu inaugurato dagli Ottomani.
Alcune case sfidano le leggi della fisica.
Nel complesso, se questa strada fosse risistemata, sarebbe davvero un gioiello per storia ed architettura.
Anche qui la cosa più bella è la gente, c’è meno sorpresa nel vedere uno straniero ma gli habibi, welcome e hello non li conto più. La gente sembra abituata a qualche forestiero ma la curiosità per un turista è ancora tanta. In ogni caso, pur essendo nella zona vecchia di Baghdad vedo sicuramente più modernità di ogni altro posto visto finora.
Certo, non aspettatevi le consegne fatte con i droni
La città è praticamente un mercato a cielo aperto. Negozi, bancarelle, supermercati si susseguono per km. Si trova qualsiasi cosa. Dalla frutta alla carta igienica mi sembra di essere in una versione live di AliExpress.
C’è perfino questa. Magari una soluzione per la Juve? Perché continuare a sognarla quando bastano un volo per l’Iraq e 20 dollari?
Altre foto di gente e cose:
La città vecchia è anche famosa per due mercati, quello dei libri e quello del rame. Entrambi ospitati in una zona messa a nuovo e pedonale. Mi soffermo soprattutto in quello dei libri dove compro questa. Una vecchia guida dell’Iraq in tedesco.
È una di quelle poche volte in vita mia dove non vedo paccottiglia ma artigianato.
In Al-Mutanabbi street mi fermo al caffè Shahbandar, locale centenario.
Il proprietario siede all’ingresso ed invita tutti ad entrare e godersi un te. Mi guardo intorno, non c’è un metro di di parete libero. Ci sono foto di persone credo famose, forse politici, cantanti, attori, sicuramente foto di tempi in cui Baghdad era un’altra città.
Non riconosco nessun volto ma mi accorgo che all’ingresso più grandi di tutti gli altri ci sono le foto di 5 ragazzi. Mi soffermo a guardarli, Il proprietario incrocia il mio sguardo mi dice “my kids”. All’inizio penso che siano ritratti di famiglia come quelli che abbiamo nelle nostre case. Poi capisco. Qui nel 2007 una bomba ha frantumato tutto. Anche la sua famiglia, lui è rimasto zoppo ma vivo. Non ho molto da dire, solo da ascoltare e pensare. Un’altra storia di resilienza umana. Bevo il mio te, scatto qualche foto.
Quando vado a pagare, lui si alza in piedi, mette la mano sul cuore e mi saluta. Gli chiedo una foto.
Sono ormai le 14:10. La mia pancia è ricca di emozioni ma povera di sostanza. Ho bisogno di mangiare qualcosa. A pochi passi c’è un posto che fa solo kubba.
Non ci penso due volte. Spettacolari. Sono polpette di carne e spezie inserite in un impasto di semola.
A tavola faccio amicizia con due signori che parlano inglese. Insegnano all’università. Ci scambiamo i numeri di telefono. Mi invitano ad andare nei prossimi giorni e bere un tè al loro studio. Strana gente questi iraqeni, conoscono solo il linguaggio dell’amicizia, sono talmente abituato alla diffidenza che ogni volta mi chiedo sempre se ci sia qualcosa dietro. Vogliono rapirmi? Vogliono dei soldi? Poi mi ricordo che non sono a Zurigo.
Mi congedo dai due professori. Ho appuntamento con Habib. Vi ricordate l’autista del primo giorno? È a Baghdad e con WhatsApp mi sono accordato per un passaggio a Ctesiphon. A 20 km da Baghdad c’è quello che rimane di una delle principali città dell’Impero dei Parti. Ci becchiamo all’ingresso del mercato, mezz’ora e sono a destinazione. La strada è libera e non ci sono particolari cose da segnalare se non il parabrezza appena sostituito da Carglass
Habib parcheggia e viene con me perché vuole mostrarmi qualcosa di cui ignoravo l’esistenza. Le rovine di una struttura gigantesca completamente abbandonata e che nella testa di Saddam doveva essere una sorta di teatro, museo, biblioteca con un enorme dipinto panoramico circolare.
Ingresso. Non promette nulla di buono.
Si chiama Bnurama Cities. È tutto distrutto. Ci sono macerie e nel buio rischio anche di farmi male. Salire su per le scale è un’impresa, Dall’ultima rampa si intravede il dipinto ma non riesco a fare nessuna foto. Questa la struttura da lontano:
Vedo finalmente la luce. All’ultimo piano c’è una bella vista ma nulla di più.
Ritorniamo giù e andiamo verso quello che rimane di Taq Kasra, il motivo per cui ero venuto. Architettonicamente è impressionante, è il più grande arco a volta di mattoni del mondo. Mi sento fortunato a poterlo vedere. L’ISIS nel 2016 l’aveva imbottito di esplosivo. Fortuna ha voluto che il detonatore non fosse mai attivato.
Attendo il tramonto, ma la scelta non è vincente. La contemplazione degli affascinanti colori del cielo viene interrotta da sciami di zanzare con le quali inizio una lotta impari. Andiamo via, ci infiliamo in auto e quando ormai è buio siamo in strada verso Baghdad, direzione un posto dove preparano il piatto nazionale dell’Iraq. Il Masgouf. Per strada ci tiene a passare qui. La piazza dove la statua gigante di Saddam è stata tirata giù dalla folla nel 2003. Ve la ricordate?
Oggi è così
Ritorniamo al Magsouf. Una carpa gigante cotta alla brace. Habib mi porta nel migliore posto dell’Iraq, dice lui. Un ristorante per soli uomini. Boh. Forse intendeva uomini soli. Ci salutiamo, purtroppo non può fermarsi con me.
Entro e capisco cosa volesse dire. Non ci sono donne! I minimo 2 kg di pesce nella versione più piccola sono roba da uomini.
Vasca con carpe vive
Tavolo con carpe morte
Carpe in preparazione
La brace. Una cosettina da niente...
Questa è l’ultima foto della giornata
Ci metto un attimo a finire tutto. Squisito. Unica pecca, l’assenza di sostanze alcoliche con funzione idraulico gel. L’unica cosa che si beve qui è acqua.
Un’altra giornata lunga volge al termine. Ci infilo altri due pensieri prima di incamminarmi verso l’albergo nella notte iraqena, ancora viva, rumorosa, trafficata.
Baghdad mi sembra anni luce lontana dagli uomini delle paludi, qui qualcosa è già cambiato. Qui la gente è curiosa di vedermi, è ospitale ma non così come qualche chilometro fa. Stasera il pesce l’ho mangiato da solo tra gente che guardava i telefoni mentre fumava. Sono sicuro che qualche campagna prima, nemmeno il proprietario del ristorante mi avrebbe permesso di sedermi solo. Penso che siamo 8 miliardi di individui, che siamo unici, che siamo diversi ma non stiamo ambendo a contaminare il mondo con l’umanità e stiamo determinando le sorti del Pianeta in modo inesorabile.
Ciao Baghdad. Tab masawuk.